IULM apre le porte a Bookcity

L'Università accoglie il progetto milanese tra incontri su autocensura musicale, violenza di genere e femminismo palestinese

Una grande biblioteca a cielo aperto per portare i libri dove sono i lettori. È questo l’obiettivo di Bookcity, il festival letterario che ogni anno a Milano si presenta e si racconta. Giunta alla sua quattordicesima edizione, la manifestazione dedicata al libro promuove l’accesso inclusivo, democratico e gratuito alla cultura con incontri e dialoghi che spaziano dalla scrittura all’editoria, dalla musica ai temi d’attualità.

IULM anche quest’anno ha deciso di accogliere Bookcity nelle sue aule con eventi dedicati ai suoi studenti e non. Il 13 novembre l’Università ha partecipato al palinsesto con decine di appuntamenti e ospiti per approfondire tematiche intrise nella realtà che viviamo e percepiamo intorno a noi.

Il rap tra cultura della cancellazione e testi provocatori

In un’epoca in cui comportamenti e affermazioni online possono portare alla “cultura della cancellazione”, e la libertà di espressione sembra minacciata dal “politicamente corretto” che inonda di sensibilità qualsiasi cosa incontri, la musica rap e trap con i suoi testi controversi diventa un esempio emblematico da analizzare. È stato il fulcro dell’incontro con il Dj Mastafive. 

Mastafive (nome d’arte di Johnny Andrea Mastrocinque) disc jockey e rapper

Il genere musicale, nato come denuncia sociale, da sempre si contraddistingue per i suoi testi volutamente provocatori e spesso violenti. Tra i temi più gettonati ci sono il razzismo, la misoginia, il sesso, le armi, la droga e il black humor tanto che il dibattito pubblico critica sempre più aspramente queste canzoni, senza percepirle come arte, ma piuttosto come offesa gratuita. Secondo Mastafive, però, «Non sempre i testi devono essere interpretati in maniera negativa, quando ne comprendi il contesto in cui è stato scritto, la canzone assume tutto un altro significato, anche positivo». È fondamentale, quindi, tener conto del contesto in cui il brano è stato creato, perché estrapolandolo da esso cambia anche il suo significato.

Censura e autocensura: oggi il rap è morto?

Anche per questo rischio, sempre più artisti rap (e non solo) oggi ricorrono all’autocensura e secondo Mastafive è perché «sui social sei sempre sotto l’occhio critico degli sconosciuti, e dato che la vita è anche la fatica di convincere gli altri di quello che si è, a volte dire cose scomode può essere controproducente». Può portare a incomprensione e a quella che sui social definiscono una “Shit storm”, ovvero una tempesta di insulti o critiche violente. Il Dj prosegue affermando che «Quella dell’autocensura è una cosa che si è diffusa adesso per evitare di perdere l’audience. Prima si parlava più di censura: veniva assunto un censore “dall’alto” per poter fermare la divulgazione di certi atteggiamenti».  

Allora il rap è morto? Mastafive risponde che «No, il rap non è morto. Forse è morto quello fatto dai grandi rapper mainstream che lasciano in secondo piano l’obiettivo sociale per cui hanno iniziato a percorrere questa strada», che non affrontano più temi caldi e scomodi, oppure ne parlano con superficialità. Ma il genere musicale in sé è più vivo che mai, e ha ancora molto da dire. 

Data science e violenza di genere: dati, sì ma anche umanità
Emma Zavarrone docente di Statistica Sociale all’Università IULM

Il progetto VIVA è il cuore pulsante del volume Data Science e violenza di genere – Analisi di dinamiche e protagonisti. Ideato e coordinato da Emma Zavarrone, docente di Statistica Sociale all’Università IULM, nasce da una riflessione profonda sul valore della prevenzione come atto culturale e civile. «La vita è sacra», sottolinea Zavarrone, ricordando che la prima forma di prevenzione è il rispetto per sé stessi e per gli altri. Esiste uno spartiacque netto tra libertà e appropriazione della libertà altrui.

La ricerca sposta così l’attenzione dal computo del male al suo significato: non più un elenco di vittime, ma un percorso di comprensione e di crescita collettiva. VIVA analizza le narrazioni delle sopravvissute alla violenza di genere, trasformando i numeri in volti e le statistiche in consapevolezza.

Attraverso l’analisi semantica e narrativa delle storie di chi è riuscita a uscire dalla spirale della violenza, il progetto indaga il momento in cui avviene la presa di coscienza in quella che è una sorta di rinascita. L’obiettivo, spiega Zavarrone, è favorire un processo di consapevolezza che accompagni la prevenzione, aiutando a riconoscere e decostruire dinamiche di prevaricazione, mancanza di rispetto e quella linea sottile che intercorre tra amore e possesso, perché – ricorda – amore non è possesso.

Il progetto SAFE e l’aiuto della tecnologia

Accanto a VIVA, il progetto SAFE (Support and Awareness for Empowerment), “spin-off” di ateneo curato dalla ricercatrice Alessia Forciniti, amplia la ricerca con strumenti digitali e tecnologici, come un chatbot pensato per intercettare segnali di disagio e fornire indicazioni tempestive a chi vive situazioni di rischio o di malessere. Si tratta di una forma di prevenzione “silenziosa”, capace di leggere le ferite (anche) digitali e di trasformare il linguaggio stesso in uno spazio di ascolto.

Per Zavarrone, tuttavia, la lotta alla violenza di genere richiede un’azione sistemica: una “triade operosa” che metta in relazione la dimensione legislativa (che nel volume è stata curata dall’avvocato Marzia Coppola), quella ricercativa e quella applicativa. Solo attraverso un dialogo costante tra le istituzioni, il mondo accademico e la società civile è possibile costruire una vera “cabina di regia” del cambiamento. «L’università – osserva – può aiutare a individuare strategie efficaci, ma senza il sostegno legislativo e senza dati aggiornati il processo rischia di rallentare».

Anche se i numeri del 1522 mostrano una realtà in movimento – oltre 164 mila chiamate in un anno, ma solo cinquemila donne effettivamente uscite dal ciclo della violenza – la strada resta lunga. Da qui l’appello della professoressa: continuare a generare dati, narrazioni e consapevolezza, perché solo attraverso la conoscenza condivisa. Ribadisce – la prevenzione si possono gettare le basi di una trasformazione reale. «La strada è ancora lunga e abbiamo bisogno di tante voci che possano supportare e supportarci», conclude.

Palestina, quando la lotta per la resistenza diventa anche femminista 
Cecilia Dalla Negra autrice del libro “Questa terra è donna. Movimenti femminili e femministi palestinesi”

Cecilia Dalla Negra è stata la protagonista dell’incontro “Femminismo e resistenza in Palestina”. Un momento di riflessione e dialogo dedicato al ruolo delle donne nella lotta per la liberazione del popolo palestinese. Giornalista e scrittrice, Dalla Negra è autrice del volume “Questa terra è donna. Movimenti femminili e femministi palestinesi”, un saggio che indaga con sensibilità e rigore la dimensione femminile della resistenza palestinese. Il libro si focalizza sull’oppressione patriarcale e coloniale della Palestina. L’opera si inserisce all’interno del più ampio panorama degli studi di genere «colmando il vuoto storiografico sul contributo delle donne al Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese», ha affermato Manuela Borraccino, moderatrice dell’evento.

I movimenti femministi sono stati attivi sin dai primi decenni del Novecento, ben prima del 1948. L’anno cruciale della Nakba, l’allontanamento dei palestinesi dai propri territori che segnò l’inizio dell’occupazione israeliana. Le donne non si sono limitate a sostenere la causa nazionale da una posizione marginale, ma hanno reclamato un ruolo attivo nella lotta politica e sociale. Alcune, come Zahira Kamal, sono riuscite a entrare nelle istituzioni, fino a ricoprire incarichi di rilievo all’interno del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Dimostrando come il femminismo in Palestina non sia un movimento parallelo, ma parte integrante della lotta di liberazione nazionale.

Il contributo delle donne, tuttavia, non si è esaurito nella militanza politica. La resistenza femminile si manifesta anche nella quotidianità, nel mantenimento delle tradizioni e nella cura della memoria collettiva. In un contesto di oppressione e violenza, ogni gesto di vita diventa un atto di “sumud”, “resilienza” o “fermezza”. È una forma di resistenza passiva, capace di preservare l’identità e la dignità di un popolo che continua a lottare per la propria autodeterminazione.

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