«In 30 anni di storia, la nostra azienda non ha mai vissuto niente del genere, tentiamo di adattarci mettendo al primo posto la salute del lavoratore». Nel piccolo paese di Quinto di Treviso, nella Marca Trevigiana, l’epidemia da coronavirus – riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come pandemia – ha messo in difficoltà diverse aziende. La zona industriale, inaugurata nei primi anni 2000, sembra deserta con le serrande abbassate e senza via vai di camion e automobili. Proprio lì, però, c’è una piccola impresa del settore della prestampa che ha cercato di trasformarsi e reinventarsi, per evitare di chiudere a causa dell’emergenza. È la Sartori Group, che dal 1981 lavora nel mercato della grafica e dà lavoro a una trentina di dipendenti.
«Noi siamo una ditta che fa stampa digitale in piccolo e grande formato. I provvedimenti del Governo in seguito allo scoppio dell’epidemia da coronavirus ci hanno messo in difficoltà – racconta Stefano Saviozzi, responsabile amministrativo della Sartori Group -. Ma senza perderci d’animo abbiamo cercato di capire come fare per non lasciare a casa 30 dipendenti mettendo in difficoltà le loro famiglie».
Poi l’idea. Le attrezzature per la stampa al dettaglio e il materiale plastico (policarbonato e plexiglass) potevano essere utilizzate in maniera diversa. «Vista la situazione – continua Stefano -, i nostri clienti hanno iniziato a chiederci dispositivi di protezione. Abbiamo così ideato alcune barriere trasparenti da mettere, ad esempio, nelle casse dei supermercati».
Una novità assoluta per la Sartori Group: «Era nel nostro potenziale, avevamo tutte le attrezzature necessarie, ma non lo avevamo mai fatto prima. Ci siamo adattati alla situazione, per sopravvivere come azienda e per garantire un futuro anche ai dipendenti». Oltre alle barriere protettive per i punti vendita, l’impresa ha iniziato a realizzare anche degli schermi per il volto: «Li abbiamo creati con un materiale trasparente, assomigliano a quelli usati dagli operai che lavorano con i decespugliatori. L’unico problema è che non sono presidi medici perché non abbiamo le autorizzazioni». E sulla questione delle certificazioni Stefano è un po’ amareggiato: «Stiamo provando a capire come fare per riuscire a ottenere le autorizzazioni, ma la burocrazia in Italia è lunga. E le difficoltà che incontri disincentivano le aziende a questo tipo di azioni. Per questo motivo, nel frattempo, stiamo producendo queste mascherine: non potranno aiutare i medici o il personale degli ospedali, ma danno un minimo di protezione alle persone nelle loro azioni quotidiane».
L’attenzione alla persona è alla base anche del rapporto tra l’azienda e i suoi lavoratori: «Abbiamo risentito molto a livello produttivo, abbiamo avuto perdite, ma cerchiamo di non chiudere pur rispettando le norme di sicurezza imposte dal Governo. In questo periodo cerchiamo di non avere il reparto a pieno regime per evitare il contatto tra le persone, per questo motivo turniamo il personale al lavoro, per rispettare le distanze imposte. Abbiamo poi messo dei punti di sanificazione con gel per pulirsi le mani e abbiamo dotato i dipendenti di mascherine». L’obiettivo della turnazione è quello di non lasciare a casa nessuno, ma dividere il lavoro: «Abbiamo dato libertà ai dipendenti di scegliere: se qualcuno non se la sente di venire al lavoro perché teme per la sua salute lo rispettiamo. Consideriamo la salute del dipendente come prioritaria, in questo momento viene prima di tutto».
Nonostante gli sforzi per continuare con il lavoro, l’azienda non è riuscita a riconvertire tutta la produzione: «Anche noi come molte altre imprese usufruiamo della Cassa Integrazione. Nonostante cerchiamo di adattarci andiamo avanti a singhiozzo in base alla richiesta. La scorsa settimana abbiamo prodotto più di 300 schermi protettivi, ma ora ci siamo fermati perché anche la domanda si è bloccata. Cerchiamo di essere elastici e di rispondere al meglio alle richieste del mercato».
Uno sguardo va poi al futuro: «Andremo avanti con questo nuovo tipo di prodotti anche quando l’emergenza sarà passata perché molti locali pubblici probabilmente cambieranno le proprie abitudini e avranno bisogno di sentirsi tutelati nel rapporto diretto con la clientela. Credo che anche quando potremo uscire di casa, la vita non sarà più quella di prima e le persone avranno bisogno di sentirsi protette».