
Mauro Ferraresi, direttore del Master IULM in Management e Comunicazione del Beauty and Wellness, ci accompagna a esplorare i meccanismi che oggi governano il concetto di bellezza. Dagli standard digitali che fissano modelli irraggiungibili alla crescente dipendenza dalla chirurgia estetica, passando per le questioni economiche e psicologiche che alimentano il desiderio, e talvolta l’ossessione, di apparire. Ma ci interroga anche sul ruolo dell’educazione, sulla possibilità di sviluppare uno sguardo critico e sulla sfida di difendere un’idea di bellezza più inclusiva, capace di accettare l’imperfezione e la diversità.
Perché oggi c’è un desiderio così forte di bellezza?
La volontà di ricercare la bellezza non è mai stata così forte come nella società contemporanea. Che sia stata l’industria del beauty a stimolare questo desiderio o il contrario, poco importa: siamo dentro a un circolo – virtuoso o vizioso – in cui i due elementi si sostengono e rafforzano a vicenda.
Cosa spinge le persone a cercare così ossessivamente la bellezza?
Credo che tutto questo derivi dall’aumento generalizzato dello stress, della fatica, della frustrazione, da quello che un poeta chiamerebbe “il male di vivere”. È importante capire che non si tratta di una questione superficiale: il bisogno di bellezza non riguarda solo l’aspetto fisico, ma affonda le radici in dinamiche psicologiche e sociali molto più profonde. E in una società dominata dal profitto, è inevitabile che questo bisogno venga cavalcato dalle aziende del beauty e del wellness, alimentando quel circolo vizioso di cui parlavamo.
In che modo la società contemporanea costruisce ed impone determinati standard di bellezza?
La rivoluzione digitale ha creato degli standard di bellezza che sono diventati quasi impossibili da raggiungere. Negli anni ’90 è nato quello che nei miei corsi chiamo “terzo tipo di spazio”: oltre al mondo esterno, fatto di cose reali, e a quello interiore dei nostri pensieri e dialoghi interiori, si è aggiunto lo spazio digitale, che ha un potere comunicativo straordinario. È proprio in questo spazio, attraverso linguaggi visivi e scritti, che si costruiscono modelli di bellezza irraggiungibili. Oggi, con l’intelligenza artificiale, siamo sommersi da immagini di volti perfetti e corpi ideali che non fanno altro che accrescere la frustrazione delle persone e, di conseguenza, amplificare ulteriormente il bisogno di inseguire quell’ideale di bellezza.
Come incide tutto questo sulla percezione di sé? Quali sono le conseguenze?
Le conseguenze sono molteplici e si intrecciano tra loro. Da un lato, nasce inevitabilmente un senso di frustrazione: quando gli ideali proposti appaiono inaccessibili, il risultato non può che essere un danno psicologico, un senso di fallimento che mina la propria autostima. A questa frustrazione si accompagna spesso una corsa affannosa alla bellezza, fatta di continue spese – ovviamente proporzionate alle disponibilità economiche di ciascuno – che alimentano dinamiche tipiche della società dei consumi: acquistare prodotti, trattamenti, interventi, nella speranza di colmare quel divario percepito.
Esiste però anche una terza possibile reazione, più sana: rifiutare questi modelli imposti e intraprendere un percorso verso la riscoperta e l’accettazione della propria bellezza personale, quella che esiste al di là degli standard. Il problema, però, è che per riuscirci servono un forte equilibrio interiore e una serenità di fondo, perché il mondo esterno non ci manda certo messaggi rassicuranti. Là fuori nessuno ci dice “sei bello così come sei”; al contrario, la società ci impone continuamente parametri a cui dovremmo conformarci. Per trovare la forza di sottrarsi a questa pressione, come sottolineerebbero anche gli psicologi, serve quasi una sorta di “autorizzazione interna”, una sicurezza che non tutti hanno o riescono a costruirsi facilmente.
È anche per questo che ci convinciamo che la bellezza apra porte, sia nella vita privata che in quella professionale?
All’inizio lo dicevano apertamente solo alcuni settori, come la moda, la cosmetica: lì si richiedeva uno “standing”, un’immagine che fosse già argomento di vendita – “uso questi prodotti, guarda come sono bello”, “indosso questi abiti, guarda come mi stanno”. Ma poi questo discorso si è esteso anche ad altri settori dove in teoria la bellezza non sarebbe un requisito, e invece viene sempre più richiesta. Perché? Perché la bellezza vende meglio, e questo discorso funziona in tutti gli ambiti e i settori merceologici.
È diventata, quindi, anche una forma di ossessione?
Nel momento in cui ci si rende conto che la bellezza non è solo qualcosa che migliora la vita sociale o il benessere personale, ma è qualcosa che può garantirti una carriera, è chiaro che può diventare un’ossessione. Per alcuni settori, però, è puro marketing.
Si tratta più di insicurezza o di una forma di potere?
Il buon senso direbbe entrambe le cose: c’è una forma di insicurezza che si cerca di compensare puntando sull’aspetto esteriore, ma c’è anche un bisogno sociale di bellezza. Non solo nei rapporti personali, ma anche in quelli lavorativi.
Qual è il ruolo dell’educazione nel promuovere una visione più critica rispetto a questi standard?
Dirò qualcosa che va contro il mio stesso lavoro e in cui però credo profondamente: l’educazione e la costruzione di un’intelligenza critica salvano, se non il mondo, la persona. Tuttavia, temo che oggi cercare di costruire una mentalità critica attraverso la didattica sia come svuotare il mare con un secchiello. La potenza comunicativa del terzo tipo di spazio, quello digitale, è talmente invasiva che è difficile costruire personalità che sappiano far fronte a questa pervasività. Io lo faccio da sempre, lo faccio con passione e non smetterò mai, ma a volte mi sento come Don Chisciotte.
Ma come si può educare alla bellezza senza cadere negli stereotipi?
Dirigo il Master in Beauty and Wellness e dico sempre ai miei studenti che mi piacerebbe che, alla fine del percorso, sentissero di avere addosso un paio di occhiali nuovi, capaci di leggere meglio la contemporaneità. Vorrei che avessero un pensiero critico: non per rifiutare questi settori, ma per entrarci senza svendersi l’anima, mantenendo la giusta distanza e al tempo stesso la giusta passione, perché senza passione, in questi ambiti, non si va lontano.
Assistiamo a un abuso crescente della chirurgia estetica: quanto spazio resta per la bellezza naturale?
La bellezza naturale non esiste più da quando siamo diventati animali culturali. È sparita nel momento in cui una nostra antenata si è infilata una pelle d’orso lavorata addosso: da lì in poi, la bellezza è diventata un concetto. Anzi, è nata proprio allora. Prima erano altre le virtù che regolavano la vita, ad esempio la forza. Nel momento in cui siamo diventati, come avrebbe detto Aristotele, animali razionali, la bellezza naturale ha smesso di esistere.
Ma c’è ancora spazio per l’imperfezione?
Qui il discorso diventa politico. Prima dell’attuale presidente degli Stati Uniti, temi come l’imperfezione, l’inclusività, l’idea che una donna potesse essere bella anche con cinque chili di troppo, erano più accettati. Oggi no, improvvisamente no. Questo dimostra che la bellezza è un tema sociale e persino politico.
Quanto i contesti culturali influenzano la percezione della bellezza?
I contesti culturali vengono deviati dai contesti politici. Quando si parla di cultura woke, lo si fa solo se c’è dietro una spinta politica. Se questa manca, o viene sostituita da altro, il discorso woke diventa fazioso, parziale, inefficace. La domanda di fondo, però, resta una: vogliamo lasciare o no libertà di bellezza? Se accettiamo questo, i discorsi woke hanno ragione d’essere; se invece non lo facciamo, accettiamo di restare intrappolati negli standard, con tutte le frustrazioni e le contraddizioni che ne derivano.
E in questo contesto, quale ruolo ha l’Italia?
Abbiamo un ruolo importantissimo a livello industriale e merceologico. L’Italia è una potenza nel settore della bellezza: anche se le grandi marche non sono italiane (pensiamo ai francesi), la produzione è qui, o nella sempre più potente Corea del Sud. In Italia, poi, sta emergendo con sempre più forza anche il comparto del wellness, con risultati significativi sull’economia: contribuisce in modo significativo all’export e genera un numero crescente di posti di lavoro. In altre parole, la bellezza e il wellness rappresentano per l’Italia non solo un’identità riconosciuta a livello internazionale, ma anche una risorsa economica fondamentale, un vero e proprio motore di crescita e occupazione.
Quale potrebbe essere una sua definizione personale di bellezza nel 2025?
Nel 2025 la bellezza più bella, perdonate la ripetizione, è la bellezza costruita, la bellezza sintetica, quindi chirurgica. Per quel che mi riguarda, invece, dirò delle banalità, ma come direbbe Jane Austen, la bellezza rappresenta una corretta relazione tra senso e sensibilità.