Una moda «rapida» e a basso costo. In questa definizione si colloca Shein, il colosso cinese che nel giro di una decina d’anni è diventata una delle piattaforme più cliccate al mondo. Ma Shein non è l’unico marchio coinvolto nelle numerose controversie del fast fashion. Zara, Pull and Bear e Bershka sono solo alcuni dei nomi più noti accusati di mancato rispetto delle politiche ambientali.
Il successo di Shein
Nel 2008 l’imprenditore cinese Chris Xu concepisce Shein come un sito dedicato alla vendita di gioielli. In pochi anni acquisisce una fama smisurata, arrivando a fatturare dieci miliardi di dollari nel 2020. A novembre 2021 l’azienda tocca i trenta miliardi, arrivando ad oggi a superare i sessanta. Un valore che supera quello di Adidas, H&M e Burberry raggruppati. Nel 2022 la sua app è la più scaricata in America con 27 milioni di download, secondo i calcoli di App Annie e Sensor Tower.
Shein utilizza un sistema di algoritmi e analisi dati che rileva le tendenze in tempo reale, garantendo la produzione di nuovi modelli in solo dieci giorni. Un’impresa surreale per concorrenti come Zara, che richiedono almeno cinque settimane. Piovono anche denunce per plagio, dai designer emergenti fino alle case di moda più famose, che conseguono al quotidiano upload di sei mila prodotti al giorno.
Il prezzo da pagare…e da indossare
Secondo Eurostat, il costo medio orario nell’industria tessile e manifatturiera in Italia è di 27 euro lordi. Seguono la Lituania con 9 euro, Romania con 6,9 e Bulgaria con 5,4. Business Human Rights Center e Salary Expert dipingono uno scenario preoccupante per l’Asia: in Cina e Vietnam il costo va rispettivamente dai 4 ai 3 dollari. L’ultima posizione la occupano Madagascar e Myanmar con 2 dollari al giorno. Quasi tutti i grandi marchi, quelli di alta moda compresi, hanno delocalizzato una parte della produzione in questi Paesi, dove la manodopera è meno costosa.
I diritti (mancanti) dei lavoratori
Dopo l’inchiesta Untold: Inside the Shein Machine, realizzata dalla reporter anglo-algerina Iman Amrani sono emersi dettagli sulle condizioni dei dipendenti nelle fabbriche di Shein. Si parla di 17 ore di lavoro al giorno, un solo giorno libero al mese e scarsità assoluta d’igiene. La paga è di 4 centesimi a capo per una produzione quotidiana di 500 capi. A giugno 2023, Shein decide di rispondere invitando sei influencer in una delle sue fabbriche. Sui social le influencer hanno stilato una recensione più che positiva, raccontando di lavoratori soddisfatti e pieno rispetto dell’etica lavorativa.
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Immediata, e inevitabile, la bufera di critiche subito dopo, che ha costretto le creator a ritrattare quanto scritto. Secondo un rapporto di Bloomberg, le magliette in cotone di Shein sono frutto del lavoro forzato degli Uiguri, una minoranza musulmana dello Xinjiang. Questa popolazione è perseguitata da anni dal governo cinese, che sfrutta la regione per la grande produzione di cotone.
Una clientela giovanissima
Se influencer e celebrities sono i mittenti della sponsorizzazione del colosso cinese del fast fashion, i destinatari sono proprio i giovani. Paradossalmente la generazione Z, la più attenta a temi quali ambiente e diritti, è uno dei clienti più fedeli del marchio. Ma da dove nasce questa contraddizione? Un esempio lo fornisce uno studio di Untold Insights, società inglese di ricerca e strategia di compravendita digitale. Il 96% degli intervistati, di età compresa fra i 16 e i 40 anni, ha spiegato che il caro vita non li agevola ad acquistare sostenibile. Una questione che tocca molte persone, e che sembra essere uno dei punti di partenza nel dibattito sulla moda a basso impatto ambientale.
Il costo ambientale e l’inquinamento
Un rapporto di WWF e National Geographic sottolinea che per realizzare una t-shirt in cotone sono necessari circa 2.700 litri d’acqua. Questo perché la produzione intensiva di cotone necessita di continua irrigazione. Dalla coltivazione ai processi industriali, la produzione di abbigliamento, soprattutto se a basso costo come quello di Shein, comporta rischi significativi per la salute umana e l’ambiente. L’uso di coloranti chimici, come gli azoici, è vietato in Europa dal 2002 in quanto considerati potenzialmente cancerogeni. Inoltre, i tessuti sintetici utilizzati da Shein contengono spesso sostanze chimiche tossiche (nonilfenoli e ftalati) che danneggiano molti ecosistemi.
Ammassi di rifiuti
Il punto più critico di questo ciclo di consumo è lo smaltimento. Ogni anno, in tutto il mondo, si producono 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui viene riciclato appena il 15%. Il tutto si riconduce alla bassa qualità dei prodotti fast fashion, destinati a essere rapidamente gettati. Secondo la Ellen MacArthur Foundation, ente internazionale operativa nel settore dell’economia circolare, ogni secondo un camion carico di tessuti viene incenerito o smaltito in una discarica. Più veloce sarà il ciclo di consumo, maggiore sarà l’impatto ambientale.
Non solo Shein
La responsabilità, comunque, ricade anche su altri noti marchi fast fashion come H&M, Zara, Bershka e Pull & Bear. Nel corso degli anni sono fioccate denunce per le pessime condizioni di lavoro nelle fabbriche di questi brand e stipendi miseri. È anche vero che da qualche anno hanno introdotto politiche più sostenibili e sembra ci sia anche un impegno a livello sociale. Ciò non toglie che il fast fashion per definizione fa molto attrito con tutto ciò che riguarda la sostenibilità ambientale.