Giovedì 11 marzo al Palazzo Pirelli di Milano Stefano Rolando, professore di Comunicazione pubblica nella facoltà di Scienze della Comunicazione all’Università IULM, ha ricevuto il Premio alla Carriera dalla Giuria di The PRize, l’unico riconoscimento italiano dedicato alle Relazioni Pubbliche.
Nel corso della sua carriera, Stefano Rolando ha ricoperto il ruolo per dieci anni di direttore generale e capo Dipartimento Informazione e Editoria alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. In IULM è stato anche segretario generale della Fondazione di ricerca IULM. A Roma è stato segretario generale della Conferenza dei Presidenti delle assemblee regionali italiane e rappresentante italiano nel comitato scientifico Unesco-Bresce. E stato anche dirigente della Rai e dell’Olivetti. E direttore generale Istituto Luce e direttore generale del Consiglio della Regione Lombardia. Ha scritto diversi libri incentrati sulla comunicazione pubblica e sul public branding. Ma anche di storia, politica e identità.
Professore, che cosa si intende per comunicazione pubblica?
Il concetto di comunicazione pubblica fa riferimento al processo comunicativo tra cittadini, istituzioni e imprese ed è funzionale alla triangolazione tra questi attori. All’interno della comunicazione pubblica ci sono quattro aree: la comunicazione politica, quella istituzionale, quella sociale e quella d’impresa (nella sua componente non commerciale).
In cosa si distinguono le quattro aree?
La comunicazione politica riguarda le attività di chiedere i voti, di fare un progetto politico e di creare una classe dirigente per il Paese. La comunicazione istituzionale, invece, è relativa alle amministrazioni pubbliche: parla al cittadino che è sia utente che contribuente. La comunicazione sociale è fatta da sistemi associativi aventi uno scopo, preciso o generico, per la collettività. E infine, la comunicazione d’impresa, per ciò che riguarda le diverse realtà produttive nel rapporto con il territorio e con i problemi di interesse generale.
Come si è evoluta la comunicazione pubblica negli ultimi anni?
Nella prima metà del ‘900 la comunicazione pubblica era la propaganda del regime. Ma anche nel dopoguerra essa è stata gestita principalmente dalla politica, che si faceva interlocutrice direttamente dei cittadini. Ma i cittadini avevano bisogno di parlare con chi si assume la responsabilità di servizi e prestazioni con una certa informazione in maniera diretta, vale a dire gli intermediari istituzionali dell’amministrazione pubblica. A partire dagli anni 80 e 90 si sono create le condizioni perché ci fosse una disciplina, delle normative, dei principi organizzativi. Come in tutta Europa.
Come sono cambiate le cose con l’avvento di Internet?
Prima di Internet l’informazione era più verticale, più lenta e meno interattiva. Con Internet è diventata orizzontale, velocissima e interattiva. È stata una rivoluzione epocale. Con la rete ha avuto avvio un processo dove un ricettore può diventare un interattore, libero di dire la sua.
Cosa si è perso con questo cambiamento?
Con questo nuovo sistema forse si è ridotta la potenzialità della narrativa. La comunicazione è spesso diventata assertiva, sono state annullate le sfumature nei messaggi. È tutto: “sono d’accordo”, oppure “non sono d’accordo”. Il politico va in televisione per dire in trenta secondi le stesse cose che poi scrive su X. L’assertività ha trasformato il processo comunicativo da pedagogico a polemico.
E questo ha avuto delle conseguenze sulla “salute della democrazia”?
Certamente. I politici cercano di porre mano a questo problema, organizzando eventi, forum e assemblee. Il problema è che questa non è una soluzione ma un compromesso: le iniziative, oltre a presentare una componente relazionale, prevedono un fattore prevalente di show. E questo è a scapito di una comunicazione democratica, nel senso di produrre spiegazione che facilita diritti.
I talk show possono essere occasione di comunicazione democratica?
Spesso no. Il talk show si regge il più delle volte sulla rissa tra due rivali politici. Questo fa rimanere lo spettatore attaccato allo schermo, certamente. Ma spesso non c’è un vero dialogo sui temi. E cioè in soldoni anche la crisi della comunicazione pubblica! Oggi i ragazzi sono più informatissimi, ricevono una miriade di dati ogni giorno. Ma dovrebbero soprattutto disporre di una interpretazione dei fatti. Credo che i comunicatori pubblici debbano farsi carico di questo compito.
Non c’è il rischio che una linea interpretativa prevalga sulle altre, annullando la pluralità delle voci?
Non in una democrazia. Innanzitutto, perché si presuppone che chi governa abbia pari poteri di chi controlla l’informazione (regola a cui tendere). E poi perché, il cittadino è libero di accedere alla fonte informativa che più desidera perché in democrazia non ne esiste solo una.
Alla luce di questo, che cosa pensa della par condicio della Rai?
Partiamo da una premessa: il pluralismo non si fa per decreto, ma per domanda sociale. Se i cittadini non esprimono una preferenza su un tema, nessun “prodotto” regge, nemmeno la felicità. Il bravo politico è quello che mette in moto un meccanismo solo quando avverte che c’è un bisogno nella società: è quella che – quando si devono fare norme che prevedono costi – viene detta “democrazia della spesa”.
Quindi la comunicazione politica deve basarsi sulla domanda sociale?
Sì, ma non solo. Serve che questa domanda sociale sia corretta dalle regole del servizio pubblico. Mi spiego: in un paese democratico bisogna trovare modi per arginare la domanda collettiva all’interno di correttivi immessi dall’alto, finalizzati a garantire il pluralismo delle voci. Occorre trovare un equilibrio tra queste due componenti.
Chi è un bravo politico oggi?
È difficile da dire. Se vogliamo seguire il criterio dell’efficacia apparente, oggi i “bravi” politici appaiono quelli che intercettano il rancore sociale, presente per lo più nelle fasce meno istruite della popolazione. Per questo motivo, direi che la comunicazione dei vari Trump di oggi passa per essere più efficace di quella di altri politici.
E in Italia?
Comunicatori “efficaci” sono stati considerati Salvini o Grillo. Con le loro parabole. Anche Meloni appare abile. Ma abilità significa far credere a tutti che a votarla sia stato il 30 per cento degli italiani; ma se consideriamo che la metà della popolazione non si è recata alle urne, significa, in realtà, che la sua lista ha ottenuto la metà della quota di consensi dichiarata. Voglio dire che il ceto politico sta esprimendo più che comunicazione di vero interesse sociale comunicazione “furba”, che si fonda più sul percepito che sui dati reali.
Quali possono essere i tre ingredienti per una buona comunicazione politica?
Il primo ingrediente è la Costituzione. In quel testo sono racchiuse le norme fondamentali, le priorità morali e gli ordinamenti del nostro Paese. Per i politici è decisivo conoscere la Costituzione per governare correttamente. Il secondo è l’equità. Il politico non può lucrare sull’ignoranza del popolo; al contrario, deve creare le condizioni affinché tutti dispongano degli strumenti per conoscere la realtà. Il terzo, infine, è la rappresentanza. Il discorso del politico deve realmente difendere l’interesse nazionale, inteso come collettivo. Non limitarsi a tutelare quello del partito o del governo. Questa universalità della missione deve porre al centro i bisogni generali del Paese.