Il 12 dicembre 2023 a Strasburgo è stato assegnato il Premio Sakharov a Mahsa Amini e alle donne iraniane del movimento “Donna, vita, libertà”.
Una sedia vuota
La famiglia di Mahsa Amini, la ragazza uccisa il 16 settembre 2022 perché non indossava correttamente il velo, non ha potuto presenziare alla cerimonia. Con rammarico, la presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola ha giustificato l’assenza della famiglia Amini dicendo che il regime iraniano non ha dato consenso al loro viaggio.
A ricevere il premio anche Hafsoon Najafi, sorella di una ragazza di 20 anni uccisa sempre dalla polizia morale pochi giorni dopo Mahsa, e Mersedeh Shaninkar, colpita a un occhio da un proiettile delle forze di sicurezza che spararono durante una manifestazione sui civili a settembre 2022.
Un premio per i diritti umani
Ricevere un premio come il Sakharov è un riconoscimento importantissimo, in quanto rappresenta l’onorificenza più alta per il Parlamento Europeo e per tutti coloro che si sono battuti e si battono per i diritti umani. Il fatto che siano le donne iraniane a ricevere questo premio è straordinario e pone nuovamente luce su un discorso femminista che è completamente trasversale e, forse, non può più essere considerato di esclusivo dominio delle donne.
Le sommosse iraniane aprono uno spettro di idee riguardo ciò che significa battersi per i diritti umani nel ventunesimo secolo. L’aspetto sul quale vale la pena porre l’attenzione è che il movimento non riguarda solo le donne: comprende e abbraccia una popolazione maschile che vede nell’emancipazione femminile una via d’uscita da un regime dittatoriale che reprime tutti.
Forse è proprio per questo motivo che è di nuovo l’Iran a ricevere un premio nel 2023. Il primo è stato il Nobel per la pace conferito a Narges Mohammadi, attivista iraniana reclusa nel carcere di Teheran. La donna si è fatta rappresentare alla premiazione dai suoi figli.
Queste importanti onorificenze danno voce a un movimento che si può considerare femminista o meno, ma che sicuramente si aggiunge al coro dei discorsi sulla parità di genere.
Un movimento laico
A scandire il ritmo della lotta al regime è l’ormai noto grido “Zan, zendegi, avadi”, (“Donna, vita, libertà”). Che è diventato lo slogan simbolo di un’avversione a un ordine morale soffocante per le donne iraniane. Una reazione forte al bavaglio dell’hijab ordinato dall’ayatollah Ali Khamenei.
L’imposizione del velo è solo la punta dell’iceberg di una serie di sottomissioni e umiliazioni nei loro confronti. Alla base c’è una volontà di controllo da parte dello Stato. Un tentativo di soggiogamento delle libertà delle donne e di censura dei loro corpi, in nome di una morale solamente declamata. Sono noti, infatti, i casi di uomini appartenenti alla leadership di Teheran che si sono concessi “strappi alla regola” in paesi occidentali in cui sono emigrati.
Donna, vita libertà è il gruppo che ha guidato la rivoluzione culturale in Iran a partire dalla scomparsa di Mahsa Amini. Il movimento ha promosso atteggiamenti pubblici di aperta ostilità al regime, come il rifiuto del velo per le donne e il taglio di ciocche di capelli. Atto, quest’ultimo, di grande rilievo sociale, volto a ribaltare certe convenzioni di lunga data. Di fatto, secondo la tradizione persiana, il taglio di capelli rappresentava una forma di punizione, ed era fatto dal marito nei confronti della moglie ritenuta responsabile di adulterio.
E un movimento religioso
Donne, vita e libertà non è l’unico movimento per l’equità di genere presente in Iran. Il paese si muove tra correnti laiche e correnti religiose.
Il messaggio alla base è il medesimo, ma le proposte si modificano. L’Iran non è uno Stato arabo, ma è uno Stato islamico sciita, le donne religiose esistono e cercano di raggiungere una parità che riguardi anche gli affari religiosi.
Esiste, quindi, un femminismo islamico. Esso propone una nuova interpretazione dei testi sacri che consente alle donne di entrare appieno nella sfera religiosa. L’obiettivo è quello di creare un mondo dove l’islam sia accessibile a tutti. Questo tipo di attivismo tende a cancellare l’attuale regime di Khamenei, così come stanno cercando di fare i movimenti femministi laici.
La lunga battaglia contro il regime
Il braccio di ferro tra donne e potere in Iran non si limita agli ultimi anni. Pone le sue radici alla fine del XIX secolo, quando alcune donne ebbero un ruolo decisivo durante la Rivoluzione Costituzionale nell’introdurre norme per i propri diritti. La condizione femminile subì poi un miglioramento sotto la dinastia dei Pahlavi, dal 1926 al 1979.
Durante questo periodo, gli scià promossero provvedimenti a tutela della condizione delle donne. Ad esempio, nel 1967 comparvero leggi che tutelavano le mogli in materia di divorzio e scoraggiavano la poligamia.
Con la rivoluzione di Khomeini, nel ‘79, queste e altre conquiste vennero annullate. L’Iran fece molti passi indietro sul tema della parità di genere. L’ayatollah mise mano al codice di famiglia riformato dai Pahlavi e introdusse molti ostacoli per le donne iraniane. Ne limitò la partecipazione agli sport, ne impedì l’accesso alla facoltà di giurisprudenza e impose loro di indossare il velo e di evitare vestiti succinti.
La reazione delle donne non si fece attendere. Il giorno dopo la legge sull’abbigliamento decine di migliaia di giovani scesero in piazza a Teheran e a Qom, la città santa del Paese. L’insurrezione fu soffocata da altre donne in hijab, poco inclini ad adottare le nuove tendenze occidentali.
Durante gli anni ’80 e ’90 la situazione peggiorò notevolmente, poiché la dottrina islamica avviluppò la mentalità delle persone sia nel mondo del lavoro che negli ambienti privati. Nel 1982, fu indetta la pena di morte per crimine di adulterio. Tre anni dopo, furono interdetti i viaggi alle donne non accompagnate da mariti o familiari.
In anni recenti, alcuni focolai di rivolta popolare sono scoppiati in varie città del Paese. La polizia morale, braccio armato della leadership religiosa, però, è sempre riuscita a spegnere l’impeto degli insorti ricorrendo a violenti metodi coercitivi.
A cura di Alessandro Dowlatshahi e Francesca Neri