Da quando scienza e tecnologia hanno cominciato ad accelerare, a metà ‘800, entrambe si sono trovate con una fida compagna, la letteratura, che ha preso per mano l’uomo comune nella comprensione di ciò che stava accadendo in campo scientifico. In alternativa si è fatta vettore delle paure del popolo, dando vita a racconti apocalittici quasi per scongiurare scaramanticamente il realizzarsi di certi scenari. Gli appassionati di fantascienza ricorderanno la celebre collana Urania, esempio di questa letteratura popolare, in cui si esploravano altri mondi, le prospettive dell’intelligenza artificiale, nonché guerre e incidenti nucleari.
Chi nel 1986 aveva la biblioteca piena di questi piccoli libri deve aver provato una sensazione di già visto, quando i giorni successivi al 26 aprile i telegiornali di tutta Europa – e tutto il mondo – parlavano di una nube radioattiva che stava attraversando il vecchio continente. A Chernobyl, città dell’Ucraina, allora ancora Paese satellite russo, alle ore 1:23:45 ora locale esplose il reattore 4. Due esplosioni a distanza di pochi secondi l’una dall’altra, causate da un errore umano che causò un inguaribile vulnus tra il nucleare e l’opinione pubblica. Alle famiglie fu intimato di comprare solo prodotti surgelati: quelli freschi potevano essere contaminati. La catastrofe nucleare non era più nei libri di Urania, ma divenne tangibile. Ed è tuttora tangibile perché la lava radioattiva brucerà a mille gradi per 100 anni imprigionata in un sarcofago per evitare che provochi ulteriori danni.
La zona contaminata è ancora oggi di 30 km di diametro, e per i prossimi 300 anni rimarrà radioattiva e inaccessibile – ma Greenpeace sostiene che le emissioni dureranno per 20mila anni. La stessa associazione inoltre stima che la nube radioattiva entro il 2056 avrà provocato 6milioni di decessi, soprattutto a causa delle mutazioni tumorali dovute all’esposizione alle radiazioni.
IL NUCLEARE CHE FU
Se Chernobyl ha calato un’ombra sul nucleare, c’è da dire che questa energia non era mai stata avulsa da critiche. Aveva distrutto Hiroshima e Nagasaki, sterminandone la popolazione. Tra il 1945 e il 1960 decine di atolli furono fatti esplodere nel mezzo del pacifico, come dimostrazione di forza tra Usa e Urss, nel contesto della guerra fredda. Il nucleare era lo strumento principe delle frizioni geopolitiche, con cui una potenza prometteva all’altra l’ecatombe nucleare.
Il pericolo, fino al 1986, però era circoscritto al perimetro militare. Con Chernobyl la questione esplose nel mondo civile. In Ucraina non si costruivano bombe all’idrogeno, ma si stoccava energia. Eppure in tutto il suo pacifismo aveva fatto più vittime di ogni altra bomba atomica costruita durante la guerra fredda. Il discorso politico e l’opinione pubblica si concentrano su quanto fosse sicura. E sul tavolo piombarono questioni etiche e domande su dove e come venivano stoccate le scorie nucleari? E poi, come si concilia una centrale nucleare con la coscienza ecologica che stava prendendo sempre più piede a fine anni 80?
A distanza di 25 anni dal disastro in Ucraina, proprio quando si stava accarezzando l’idea di un rinascimento del nucleare, un nuovo terremoto ha scosso la terra. Letteralmente. Uno tsunami, causato da un sisma di magnitudo 9, travolse la centrale nucleare di Fukushima, e la zona è tuttora contaminata.
Non fu un errore umano, né una bomba, fu un incidente causato da un evento naturale, ma in un certo senso sembra che sia stata la débâcle finale per il nucleare. Mai gli anni ‘10 del 2000 sono stati così lontani da quelli ‘50 del ‘900, in cui la fissione nucleare prometteva di risolvere tutti i problemi energetici del pianeta, tanto che Walt Disney produsse Il mio amico atomo, un film per sostenere la causa nucleare.
Si concludeva un’era. Ormai era chiaro: il nucleare era troppo pericoloso, sia che se ne facesse un utilizzo militare, sia civile. La diffidenza dell’opinione pubblica arrivò a livelli tali, dopo Fukushima, da avere conseguenze dirompenti anche su decisioni politiche di Paesi a decine di migliaia di km. Successivamente all’incidente, infatti, il parlamento tedesco votò per un abbandono definitivo del nucleare entro il 2022, assicurando lo smantellamento delle centrali attive.
La Svizzera promise di dismettere i cinque reattori nucleari del Paese e il disastro giapponese ha avuto le sue conseguenze anche in Italia. A giugno 2011, pochi mesi dopo l’incidente in Giappone, l’Italia andò al voto per un referendum che proponeva 4 quesiti, uno di questi verteva sul nucleare, e fu un plebiscito: il 95% degli elettore votò contro questa fonte energetica. Non è un paese per il nucleare, si levò un grido di giubilo tra gli ecologisti; l’Italia era salva.
E’ seguendo questo trend – che non accomuna solo le nazioni europee – che si è passati dai numeri del 1997, in cui le centrali atomiche producevano il 17% dell’energia globale, a quelli di oggi, dove i reattori forniscono solo il 10% dell’elettricità di tutto il mondo.
Chi legge questi numeri come una vittoria per la salvaguardia del pianeta rischia però di rimanere deluso. Ciò che è stato salutato come una vittoria del pianeta, rischia di essere un passo falso per quello che è l’obiettivo green degli ultimi anni: la lotta al riscaldamento climatico.
LA SVOLTA GREEN POTREBBE NON SALVARCI
Diminuzione dei ghiacciai, innalzamento dei livelli del mare e aumento della desertificazione, sono solo una parte delle conseguenze del global warming, a questi si può aggiungere anche l’estinzione di decine di specie di piante e animali. Per quanto il fenomeno sia complesso, esiste un modo per risolvere tutte queste sfide ecologiche e consta nel diminuire – e se possibile azzerare – l’impronta di carbonio.
Se l’uomo vuole salvare il pianeta, in buona sostanza, deve diminuire le emissioni di anidride carbonica che dalla rivoluzione industriale sono aumentate drasticamente fino a portarci al punto in cui siamo adesso. Senza star ad analizzare le politiche di tutti i Paesi e soffermandoci sull’Unione Europea, l’organismo sovranazionale sta mostrando sensibilità ai temi ambientali, e si è dato come obiettivo quello di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 e le energie rinnovabili sono individuate come le risolutrici del problema.
Negli ultimi anni però, a livello globale, non c’è stata una vera e propria rivoluzione dei consumi in ottica green. Solamente il 25% dell’elettricità proviene da fonti rinnovabili, mentre se parliamo di carburante –che rappresenta il 79% della richiesta mondiale – la percentuale relativa alle rinnovabili scende al 15%. La tendenza è comunque positiva ma l’obiettivo di decarbonizzare rimane ancora molto lontano. La soluzione a cui si pensa è una combinazione delle varie energie rinnovabili, ma le difficoltà non sono poche nella strada verso lo zero emissioni. Alcune fonti sostenibili subiscono le variazioni del giorno e delle stagioni (come l’eolico e il solare), mentre altre, quali l’energia idroelettrica e geotermica, sono geograficamente limitate.
Nel caso dell’idroelettrico oltretutto l’energia che se ne può ricavare non è infinita e in alcuni paesi sviluppati è già stato raggiunto il potenziale produttivo ed economico più alto.
Se vogliamo andare a vedere fino in fondo, poi, l’energia rinnovabile non è completamente a impatto zero. Prendiamo i pannelli solari, per esempio, hanno mediamente 30 anni di vita, dopo di che diventano rifiuti e necessitano di essere cambiati. Il boom dell’energia solare è stato intorno agli anni 2000, ciò significa che nel 2030 dobbiamo già aspettarci una gran quantità di materiale da smaltire. E i pannelli non possono essere abbandonati in discarica, perché rilascerebbero sostanze nocive per il suolo e le falde acquifere.
E sempre il solare darebbe altri problemi. Uno studio di Science ha dimostrato come una diffusa quantità di pannelli solari non fermerebbero il riscaldamento climatico, anzi, sul lungo periodo – un centinaio di anni – provocherebbero un innalzamento di temperatura di mezzo grado. Può sembrare niente, ma considerando che gli accordi di Parigi si pongono l’obiettivo di limitare il riscaldamento climatico a 1,5°, prima di conseguenze catastrofiche, mezzo grado sarebbe un ostacolo.
RISPOLVERARE IL NUCLEARE
Messa così sembra che si sia davanti a un cul de sac, eppure secondo una parte della comunità scientifica la risposta c’è e risiederebbe proprio nel nucleare. A settembre un report del Massachusetts Institute of Technology (MIT), The Future of Nuclear Energy in a Carbon-Constrained World, mostra che investire e aumentare i reattori in tutto il mondo sarebbe l’approccio meno costoso e più fattibile per evitare il riscaldamento globale. Ciò non significa puntare esclusivamente sul nucleare, ma è un consiglio a diversificare, integrando alle rinnovabili, proprio l’atomico.
Il nucleare è in grado di fornire grandi quantità di energia in modo costante, cioè 24 ore su 24 e indipendentemente dal territorio in cui le centrali si trovano, rendendo la fornitura delle reti elettriche molto più stabile. Ha emissioni di anidride carbonica addirittura minore del solare. E stando ai dati dell’Iea l’energia nucleare ha evitato circa 55 Gt di emissioni di anidride carbonica negli ultimi 50 anni, cioè quasi l’equivalente di 2 anni di emissioni globali.
Se si vuole guardare il fronte economico, inoltre, escludere nel futuro dell’energia quella nucleare significherebbe raddoppiare o triplicare il costo medio dell’elettricità. Senza investimenti sul nucleare, la transizione all’energia pulita richiederà 1,6 trilioni di dollari di investimenti aggiuntivi nelle economie avanzate nei prossimi due decenni.
Secondo il World Nuclear Industry Status Report attualmente ci sono 414 reattori al mondo, in funzione in 32 Paesi. Come abbiamo visto alcune nazioni stanno smantellando le loro centrali, altre però hanno imboccato la direzione opposta, costruendone di nuove. E’ l’esempio degli Stati Uniti, della Cina, di Taiwan e del Regno Unito.
Gli ingegneri, soprattutto cinesi e statunitensi, stanno cercando di reiventare la struttura delle tradizionali centrali nucleari. Quaranta aziende e istituti di ricerca sono al lavoro su piccoli reattori modulari o innovative centrali, che si prevede saranno puliti, economici e sicuri.
La ricerca si sta orientando verso l’isolamento sismico – per proteggere gli impianti dai terremoti -, la semplificazione della progettazione strutturale dell’impianto, ma anche verso l’efficientamento produttivo. I prossimi reattori, infatti, se promesse non saranno disattese, produrranno non soltanto elettricità, come è stato fino ad adesso. Le centrali del futuro potrebbero generare idrogeno per le automobili, i treni e l’industria, e per utilizzo domestico, nel riscaldamento di casa. L’idrogeno verrebbe indirizzato anche nelle industrie ad alto fabbisogno di energia, come gli impianti petrolchimici, senza aver appunto impatto sul clima.
GLI OSTACOLI AL NUCLEARE: IL TEMA DELLA SICUREZZA
Fin qui si è parlato di efficienza energetica e del cogente problema del riscaldamento climatico, senza però toccare quello è il fulcro della questione, quando si tocca il nucleare, cioè la sicurezza. E non si può andare avanti senza toccarlo, perché è proprio il rischio di incidenti atomici che ha determinato l’allontanarsi del nucleare dal tavolo dei progetti futuri di alcuni Paesi.
A sostenere il ruolo nel nucleare nel futuro dell’energia arrivano alcuni progettisti, che affermano di aver inventato reattori che non possono subire rotture del nucleo o rilasciare grandi quantità di radioattività. Per di più i piccoli reattori modulari (SMR), in uso negli Stati Uniti, producono energia sufficienti ad alimentare 200mila abitazioni. Le loro dimensioni mirano a standardizzare il design, a ridurre i costi e, quel che è più importante, riducono il rischio. Ridurre non vuol dire azzerare, ma è il segnale che con gli investimenti necessari si sta andando nella direzione giusta.
L’ipotesi di un’ecatombe nucleare imminente è un bel deterrente all’utilizzo del nucleare, a spaventare, però, è anche la gestione delle scorie. I materiali di scarto dell’attività atomica deve essere stoccata all’interno di cinque barriere impermeabili: c’è quella metallica, di calcestruzzo, quella ingegneristica, la cella di deposito, il sigillo artificiale, il tutto poi è coperto da una collina artificiale. Questo per i rifiuti a bassa attività, che sono la maggior parte e che devono rimanere isolate per 350 anni, prima che tutte le radiazioni dannose decadano. Per quelli ad alta attività il processo è diverso e richiedono una decontaminazione di migliaia di anni. In ogni caso, se tutti i passaggi di sigillatura vengono eseguiti correttamente lo stoccaggio è sicuro, anche perché le soluzioni sono consolidate e praticate da tempo.
Nel mondo i depositi nucleari, di superficie o di profondità sono centinaia, solo in Europa sono più di 30. Moltissimi Paesi europei ne hanno più di uno e, nonostante sia ormai da tempo contraria al nucleare, anche l’Italia deve occuparsi dello stoccaggio di materiale radioattivo, visto l’importanza della medicina nucleare in ambito sanitario – dalla diagnostica, alle terapie oncologiche, fino alla produzione di farmaci. Il futuro deposito nazionale, infatti, riceverà scorie da decontaminare, di cui il 40% verrà proprio dal settore sanitario.
ETICA E COMUNICAZIONE: I PUNTI DEBOLI DEL NUCLEARE
Grazie a questa tipologia di confinamento, il materiale radioattivo è esente da ogni tipo contatto con la biosfera. E questo particolare è ciò che differenzia l’attività nucleare civile dalle industrie che rilasciano sostanze chimiche nell’ambiente, spesso nocive, che si fissano nel suolo. L’energia nucleare, quindi, anche per coscienza del pericolo, è ben regolamentata e “chiude” il ciclo del rifiuto, isolandolo.
Nonostante questo l’opinione pubblica, che comunque sta diventando sempre più sensibile al tema ambientale, è altresì molto lontana dall’idea di abbracciare il nucleare, per paura e per altro. C’è il problema etico: quasi tre quarti di tutta la produzione di uranio, a livello globale, proviene da miniere che si trovano nei pressi di comunità indigene. Come succede negli Stati Uniti e in Australia. Sono miniere che, dopo l’uso, sono state semplicemente abbandonate, senza essere “isolate”, lasciando che avvelenassero così terre e popoli. Esiste poi il problema degli oneri ambientali: spesso chi gode dell’energia nucleare delocalizza le scorie in Paesi che rischiano di non stoccare correttamente il materiale radioattivo. Queste controversie però sono riscontrabili anche nell’estrazione del litio per le tecnologie rinnovabili e per il riciclaggio dell’elettronica.
A non giovare alla reputazione del nucleare, però, si aggiunge anche il fatto che a livello comunicativo questa è conosciuta per lo più per essere l’energia prodotta da quei Paesi che sono in possesso di un’arma atomica. In più è associata a Stati con governance fragili, come Nigeria, Vietnam e Arabia Saudita, in cui il parere e la salubrità dei cittadini conta molto poco.
Per finire, in molti casi, la decisione di istituire programmi nucleari è presa da una ristretta cerchia dell’élite politica senza alcuna valutazione dei bisogni reali. Quello del riscaldamento climatico però lo è, e forse proprio da questo bisognerebbe ripartire: dalla risoluzione di un problema che interessa tutti e da una comunicazione corretta dei confronti dei cittadini.