Il mondo di Aloïse è un abbraccio dipinto con succo di geranio. I disegni di Laure sono ponti segreti per l’aldilà. Marie è figlia di una rivolta di seta. Madge vuole solo riposarsi.
Quattro artiste raccontano l’ART BRUT, negli anni più volte e superficialmente definita “l’arte dei folli”, oggi al MUDEC di Milano nella mostra Dubuffet e l’Art Brut. L’arte degli outsider.
ALOÏSE CORBAZ
Una donna giace abbandonata tra le braccia di uomo. In mezzo ai seni ha una grande farfalla colorata. Tutto l’universo di Aloïse Corbaz (Losanna, 1886 – Gimel-sur-Morges, Vaud, 1964) – o almeno quella parte che troverete esposta al MUDEC di Milano – ruota intorno ad un abbraccio. Aloïse disegna completamente svincolata da qualsiasi controllo esercitato sulla ragione. Da surrealista, insomma.
E surrealista, forse, è anche il suo rapporto con l’amore. Aloïse può fare tutto. Anche avere una relazione sentimentale con l’attuale imperatore di Germania e Prussia. Non ancora ventenne, infatti, vivrà una storia d’amore immaginaria con l’Imperatore Guglielmo II, presso la cui corte è impiegata, a Potsdam. Intanto, però, scoppia la guerra ed Aloïse si ammala: i suoi disturbi psichici sono così evidenti – i sentimenti religiosi e pacifisti che esterna sono considerati troppo esaltati – che la famiglia la fa ricoverare prima nell’ospedale psichiatrico Cery-sur, a Lausanna, poi in quello della Rosière a Gimel-sur-Morges. Qui Aloïse resterà per tutta la vita. E qui, però, comincerà, segretamente, a scrivere e disegnare. Lo chiama ricochet, il suo modo di lavorare: è come se un raggio luminoso colpisse le sue matite colorate e creasse così un’emanazione di se stessa in corpi astrali, leggeri, fluttuanti, coloratissimi.
Come l’abbraccio della coppia in Trône de Rome Marcellus – Rouge baiser chameau – Napoléon à Cherbourg, parte di un’opera composta da quattro fogli di carta cuciti insieme. Perchè anche l’esistenza di Aloïse all’interno dell’ospedale psichiatrico è, in un certo senso, cucita: non dalle comuni infrastrutture ed esperienze sociali, ma dai materiali quotidiani.
Perché quando non ha colori, grafite o inchiostro, Aloïse usa succhi di petali di fiori, foglie schiacciate, dentifricio.
Con questi mezzi, l’artista traspone la sua personale cosmogonia, i cui protagonisti non sono i medici, gli infermieri o le persone comuni che la circondano ma figure principesche ed eroine. Personaggi che Aloïse “conosce” nei libri, d’arte o di storia, nelle bibbie o nei romanzi.
LAURE PIGEON
Nessuno vorrebbe sposare qualcuno di cui non è innamorato. Nemmeno Laure Pigeon (Parigi, 1882-1965), che contro la volontà della famiglia, sposa un dentista. Il coronamento del sogno d’amore è forse la sua rivalsa sull’educazione severa impregnata di regole e religione, ricevuta durante l’infanzia in Bretagna, dove era stata portata a cinque anni, dopo la morte della madre. Siamo nei primi anni del Novecento. Dopo ventidue anni di matrimonio, Laure scopre l’infedeltà del marito, e i due si separano.
La fine di un’amore è sempre un’esperienza dolorosa e traumatica. Laure si trasferisce in una pensione e affronta lo sconforto causato dal brusco fallimento del suo matrimonio abbracciando lo spiritismo. Ad iniziarla alla dottrina, una donna conosciuta proprio nella pensione dove vive. Laure impara ad usare la tavola ouija (quella cui si pone una domanda le cui risposte sono essenzialmente due, si o no) e decide che d’ora in poi la sua esistenza sarà affidata agli spiriti celesti. Tra di loro, anche quello della madre Alida. Laure scopre che, nelle vite precedenti, Alida sarebbe stata una pittrice.
Inchiostro blu o nero e figure astratte come annodate insieme. I primi disegni disegni di Laure, realizzati a partire dal 1935 in un piccolo appartamento nella regione parigina, compongono un ricamo grafico in cui forme e colore nascondono anche parole – messaggi e profezie – che la donna scrive in stato di trance. Anche nel suo caso, l’art brut permette ad Aloïse di rifugiarsi in un universo altro raggiungibile proprio attraverso i disegni; Laure li tiene sempre a portata di mano perché sarebbero proprio le opere a permetterle di stabilire un contatto con l’aldilà. Un universo in cui non solo la realtà ma anche il corpo trasmuta, diventa morbido, libero, svincolato dalla severità cui era stata costretta per tutta la sua infanzia. Resterà un mondo segreto per tutta la sua vita, quello di Laure Pigeon, cui avremo accesso soltanto dopo la sua morte, quando le opere verranno scoperte a casa sua.
MARIE BOUTTIER
Se di quello che passa nella testa di un artista art brut si sa solitamente molto poco, della vita dell’artista Marie Bouttier (Lione, 1839-1921) si sa ancora meno. Sappiamo però che è nata otto anni prima di una rivolta che avrà grande importanza per le prime teorie socialiste: la rivolta dei canuts. I canuts erano maestri tessitori della seta. È un periodo storico, quello in cui nasce Marie, in cui proprio al commercio dei tessuti e alla fabbrica di seta di Lione si deve il sostentamento della metà dei cittadini della seconda città più popolosa della Francia, che conta più di 30.000 telai. Negli anni Trenta dell’Ottocento, i canuts sono sottoposti a condizioni lavorative oppressive e durissime dai “produttori di seta” (i commercianti che finanziavano la produzione di tessuto comprando la materia prima da far poi lavorare ai canuts). La richiesta di un aumento dei salari e di un miglioramento delle condizioni della vita, sfocerà, il 21 Novembre 1931, in una vera e propria rivoluzione di migliaia di lavoratori della seta. Un’insurrezione – con tanto di cortei, guerriglie e barricate – che partirà dal quartiere lionese Croix-Rousse estendendosi poi a tutta la città, provocando morti e feriti. << Vivere lavorando o morire combattendo >>. Non è difficile immaginare la piccola Marie leggere questo famoso motto scritto sulla bandiera nera sventolata da alcuni canuts il giorno della rivoluzione.
Dopotutto, quel poco che sappiamo di lei ci dice che nasce proprio in una famiglia di lavoratori canuts e che lavorerà come tessitrice nel laboratorio di suo padre e che sposerà un tessitore, Alphonse Bouviere, editore di una rivista specializzata nel settore. Non si sa precisamente come l’art brut entri nella vita di Marie, forse attraverso l’occulto, quando Marie entra a far parte di un gruppo di spiritisti lionesi.
Quel che sappiamo è che comincia a disegnare, in stato di trance, all’età di sessant’anni.
I disegni a matita di Marie, sembrano un po’ l’intrecciarsi di un tessuto. Dove la matita di grafite fila una trama di creature indistinte – simili a pesci insetti o larve – che si fondono in motivi vegetali e fogliame.
MADGE GILL
Sembra che queste donne nell’art brut siano destinate a cavarsela, in un modo o nell’altro, sempre da sole; o che comunque debbano passare per esperienze difficili, dolorose, mistiche.
Sarà proprio il misticismo a guidare la produzione artistica della quarta donna nell’art brut. Madge Gill (East Ham, Londra, 1882 – Leytonstone, Londra, 1961) non rimane orfana di madre, ma sarà proprio lei, insieme alla zia, ad affidare Madge ad un orfanotrofio londinese. Dopo aver lavorato in una fattoria in Canada, a diciannove anni Madge torno a Londra, dove lavora come infermiera in ospedale.
Myrninerest, traducile forse con “My inner rest” (“il mio riposo interiore”) è il nome dello spirito da cui Madge dice di essere guidata durante la sua produzione artistica.
Uno spirito cui istintivamente si affida un anno dopo la morte del suo secondogenito, a causa dell’influenza spagnola del 1918 (anche Madge la contrarrà, sopravvivendo ma perdendo l’uso dell’occhio sinistro).
Madge comincia così a disegnare scrivere e ricamare di notte, alla sola luce di una lampada ad olio, utilizzando inchiostro di china e guidata dal suo Myirninerest. È una donna dai grandi occhi, la protagonista di molte delle opere di Madge, che l’artista circonda di forme geometriche, vortici e spirali.
Nel 1936 organizza sedute spiritiche mentre saranno le sue profezie, costruite su oroscopi basati su calcoli astrologici, a farle raggiungere una certa notorietà.
Quattro donne provenienti da vite e scenari diversi, ma probabilmente unite da molti di quei valori in cui Jean Dubuffet, il “papà” dell’art brut, credeva di più: istinto, passione, umore, violenza, follia. Ma attenzione, l’art brut non è l’arte dei folli.
E il perché, ce lo spiegano bene le parole proprio di Dubuffet: << per me la follia è super sanità mentale. La normalità è psicotica. Normalità significa mancanza di immaginazione, mancanza di creatività >>.