(Po)polarizzazione del linguaggio politico, i populismi della Rete

La scrittrice Michela Murgia lo chiama «parlamangismo», tradotto nel «parla come mangi». Mentre addentano un panino o degustano qualche specialità nostrana. Al mare o in montagna. Non importa. Sono pur sempre dei leader. Politici dei selfie, verso cui il popolo è in debito. Perché è merito loro se oggi è tutto più immediato. Comprensibile. Un vortice verbale caotico, “famelico” che fagocita idee e concetti.

Aldo Moro esponente DC

Sbiadiscono le figure dei vecchi politici.  Come Aldo Moro, celebre per le sue espressioni paradigmatiche. 41 anni fa l’ultimo discorso davanti alle Camere: «Ecco però la necessità ogni tanto di guardare più a fondo nelle cose, di guardare sempre realisticamente quello che ci sta di fronte».

16 marzo 1978 il rapimento. Poche settimane dopo il discorso alle Camere

Nei turbolenti anni della Prima Repubblica, mentre i partiti sono ancora portatori di un’ideologia e stabili ingranaggi della democrazia, i politici – come lo stesso Moro – si servono di un linguaggio ai più incomprensibile. Un linguaggio distante, cifrato, enigmatico, dietro cui si cela e (si autoalimenta) la distanza tra la politica e la società civile. Spesso per i cittadini è impossibile capire ciò che avviene in “alto”.

Tutto questo è il politichese. Lessico ermetico di cui, secondo lo storico della lingua Luca Serianni, i partiti si servono per «sfumare le posizioni e annacquare i concetti». E senza che il popolo se ne preoccupi. Perché è ancora il tempo in cui i partiti tradizionali svolgono il ruolo di corpi intermedi e di garanti del sistema democratico. Che un po’ ignaro e un po’ impotente assiste ai primi venti contrari ai partiti. Alla Casta.

Si aprono così le prime crepe nella democrazia, di cui approfittano i volti nuovi. Uomini, precursori indiscussi di un modo inedito di attaccare  e, tuttavia, assecondare la politica. Prima con la televisione poi con la Rete. Dalla gestualità al linguaggio, «chi sta in “alto” insegue chi sta in “basso”. E scende più in “basso” possibile. Tutti leader e tutti follower», ci ricorda il sociologo Ilvo Diamanti nell’articolo Lessico dei tempi feroci. Così «quel vetro che separava i politici dalla società e la società dai politici si è rotto, almeno, dal punto di vista della comunicazione e del linguaggio».

Sebbene i social media abbiano accelerato un «processo di popolarizzazione del linguaggio politico e dei suoi interpreti» – come sostiene Francesco Nicodemo, autore di Disinformazia e Advisor di Parole Ostili – e lo abbiano fatto in modo pervasivo, è nel 1994, con il discorso di Silvio Berlusconi, in cui prometteva agli italiani «è possibile farla finita con una politica di chiacchiere incomprensibili», che il vecchio e composto lessico politico abbandona le aule parlamentari, i palazzi e i congressi per approdare negli studi televisivi. Tra riflettori e poltrone. È nei talk show che i politici iniziano a «non farsi costringere dentro i confini di un determinato linguaggio», ricorda Serianni.

Superato il modo di esprimersi della politica, proprio della Prima Repubblica, oggi domina il lessico “svelto” dei cinguettii, delle dirette streaming e dei selfie. Su Twitter e Facebook c’è una fitta maglia di politici, giornalisti e cittadini. Mentre i primi due sono impegnati all’«auto-promozione»  – sostiene la sociologa Sara Bentivegna – c’è un «chiacchiericcio informale intorno a temi politici e non». Sulla Rete, come «luogo terzo», i discorsi pubblici s’intrecciano così con la vita quotidiana.

L’onda del cyberpopulismo

Premesso che la volgarizzazione del linguaggio politico affonda le sue radici prima ancora che il web 2.0 conquistasse terreno nella vita pubblica, dipingere il proprio avversario politico come un nemico, parlare di colpe e non più di responsabilità, puntare su temi che alimentano la paura e la sfiducia del popolo, sono oggi costanti. Evidenti sintomi di una degenerazione del linguaggio, che marginalizza e isola il “politicamente corretto”, alimenta la chiusura e sfocia spesso in violenza verbale.

Mentre affievolisce il «telepopulismo» berlusconiano, attecchisce il «cyberpopulismo». Artefice di una «retorica della Rete» che, come la tela di Penelope, disorienta e, allo stesso tempo, intrappola il cittadino medio. S’irrobustisce così un lessico tagliente. Persino strafottente. Che alla politica riserva insulti e rabbia. E sono proprio i social media a dimostrare la forza dei nuovi populismi.

In migliaia, da follower si trasformano in sostenitori dei “V-Day”. Comizi pungenti, dove le mani di chi è sceso in piazza sono alzate a disegnare in aria la “V” di un corale “Vaffanculo”, al grido di «italiani!», mentre il comico, Beppe Grillo, snocciola i 25 parlamentari condannati da cacciare da Camera e Senato. L’Italia assiste così «all’esplodere, nel cuore del sistema istituzionale di un movimento a lungo covato nella pancia del Paese». Un movimento che delle parole si nutre.

Un cartellone con il volto di Beppe Grillo a uno dei “V” Day (Bergamo, 2007)

Ci sono i partiti, le cariche istituzionali e i giornalisti nel mirino di Grillo. Mentre i media già rincorrono hashtag e dichiarazioni che rimbalzano sui social network ora sotto la forma di un breve cinguettio, ora di un post su Facebook. Epiteti, nomignoli, soprannomi. Repubblica ne riporta alcuni coniati da Grillo: «Napolitano è Morfeo, Monti è Rigor Montis, la Fornero è Frignero, Veronesi è Cancronesi, Bersani è Gargamella, Formigoni è Forminchioni».

Nessuno escluso. Grillo punta alle più alte cariche istituzionali. Con l’hashtag #tornaacasamonti, seguito dall’epiteto «energumeno anticostituzionale che si è sfiduciato da solo», tra i trending topic, il popolo del web partecipa da remoto allo scontro elettorale con like e commenti. Reazioni che giustificano Grillo ad attaccare persino i giornali: «#Tornaacasamonti dopo due ore era già di tendenza in Italia. Se ne accorgeranno al Corriere della Sera?».

Uno per tutti: Renzi, Di Maio, Salvini

«Arrivo, arrivo!», è il tweet di Matteo Renzi, mentre è ancora in corso il colloquio con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E’ il 2014, l’ex sindaco di Firenze si prepara a guidare il nuovo governo. Quello dell’#enricostaisereno, diventato l’hashtag renziano più celebre. Così nei suoi primi 365 giorni da Premier, Renzi è uno dei politici più attivi e uno dei più popolari sui social.

Dal cinguettio #lavoltabuona, allo slogan il “Paese cambia verso”, all’iconico #amicigufi, dedicato agli avversari –  politici e non –  a #bastaunsì per il referendum costituzionale: sull’onda della rottamazione e del consenso alle istanze anti-Casta, Renzi è abile nel polarizzare il dibattito pubblico sui temi della disoccupazione, del sostegno al reddito e del lavoro. Inaugurando la politica dei selfie e dei video che lo ritraggono dentro e fuori Palazzo Chigi, è lui il leader che non abbandona mai il suo popolo.

Immagine satirica su Matteo Renzi e la campagna Rottamazione

Renzi che «si era già distinto per frasi spesso sconvenienti ma ammiccanti, da enfant terrible, il nuovo Ulivo fa sbadigliare, è ora di rottamare i nostri dirigenti» promuove un linguaggio politico che sa tenere assieme l’“alto” e il “basso”. Tipico di un «populista ibrido. Un po’ di lotta e un po’ di governo», afferma lo storico Marco Revelli. Sia da Presidente del Consiglio che da oppositore politico.

Ora, quei «due tardoadolescenti», Luigi Di Maio e Matteo Salvini dominano la scena con i loro selfie e dirette streaming. Dalle scrivanie ai tetti dei ministeri che presiedono, ai balconi dei palazzi istituzionali.

Mentre Salvini sfrutta un linguaggio “martellante”, Di Maio imita una gestualità che spesso ricorda la tifoseria. Con questi due leader non c’è più traccia del «populismo dall’alto» di Renzi. Entrambi sono a pieno titolo due politici di «lotta». Dall’Europa all’Euro, dalla povertà all’immigrazione.

«La parte negativa è che per cercare il consenso dei like si scelgono temi che stuzzicano l’opinione pubblica, quelli che fanno scalpore o causano indignazione» ,  afferma Nicodemo . «La polarizzazione del dibattito pubblico sui social ci trasforma da cittadini utenti a tifosi di una curva. Leffetto finale è un enorme rumore bianco, che rende impossibile la costruzione del dialogo e la comprensione reale delle cose».

C’è un fronte del sì e uno del no che non ammette sfumature. Salvini – discepolo di Umberto Bossi, che nella Prima Repubblica si era già distinto per il suo linguaggio, con la frase iniziatica “la Lega ce l’ha duro” – ripercorre la strada maestra. Tra una #ruspa, un “prima gli italiani” e un #lapacchiaèfinita, Salvini si limita a riproporre i temi da sempre cari al partito. Ma dietro il suo successo c’è anche quell’immagine di sé da “uomo qualunque” e, non da politico, costruita a regola d’arte. Ci sono i “Buongiorno” e le “buonanotte”, le “amiche” e gli “amici” tra un post “istituzionale” e un altro. E gli scatti che lo ritraggono. A volte persino bucolici. Ma solo in apparenza ordinari.

Lontani gli anni della Prima Repubblica, questo è’dunque il tempo dell’ «on-life, in cui non c’è più differenza tra l’online e l’offline  –  chiosa Nicodemo – dominato da un forte senso di incertezza, frustrazione e paura che attanaglia un po’ ovunque i ceti medi». Il tempo in cui si odono con maggiore chiarezza i respiri affannosi delle democrazie rappresentative.

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