Se parlassimo di economia l’Italia potrebbe quasi definirsi azionista di maggioranza dell’UNESCO: nessun Paese eguaglia il nostro patrimonio artistico. Ma, mentre il nostro orgoglio culturale crolla insieme alle mura di Pompei, possiamo solo domandarci se tale ricchezza si tratti di fortuna o, piuttosto, di una condanna. Gli italiani infatti, secondo una ricerca Istat dello scorso anno, non amano perder tempo nei musei (solo il 25,9% ne ha visitato almeno uno nel 2013) né passeggiare tra le vestigia del passato (il 20,7%). Al contempo appena il 43% della popolazione si è persa tra le pagine di almeno un libro per passione e non per dovere.
Gli investimenti
L’Italia è un cane, ignorante, che si morde la coda, ultimo e isolato dal resto dell’Europa. Altri numeri, stavolta dell’Eurostat, lo dimostrano. Spendiamo appena l’1,1% delle risorse pubbliche per mantenere e promuovere il nostro inarrivabile patrimonio culturale.
Ci sorpassa, seppur di poco, la Grecia, con il suo 1,2%. Gli altri sono lontani, lontanissimi: i tedeschi con l’1,8%, gli inglesi con il 2,1%, i francesi con il 2,5%, gli spagnoli con il 3,3%. Paradossalmente, anche se sanno riconoscere l’importanza del “loro” patrimonio, ogni anno gli stranieri accorrono in massa a godere delle grazie del nostro. L’indotto del nostro disastrato settore culturale raggiunge, ogni anno, i 68 miliardi di euro e dà lavoro, in tempi non facili, a un milione e mezzo di persone.
Il marketing del sapere rappresenta, dunque, una leva in grado di risollevare, se non il mondo, perlomeno le sorti di una città, di un Paese intero.
La lungimiranza europea
La Comunità Economica Europea se ne accorse nel 1985. Mentre l’inchiostro delle firme di Schengen era ancora fresco, due responsabili di altrettanti dicasteri della Cultura si incontrarono all’aeroporto di Atene. Erano il francese Jack Lang e la greca Melina Mercouri: entrambi conoscevano bene il mercato del sapere. Dalle chiacchiere alla realtà, il passo fu brevissimo: il 13 giugno 1985 la Città europea della cultura era realtà. Le metropoli candidate presentavano i propri progetti e la Commissione garantiva loro un cospicuo sussidio per concretizzarli. Un’occasione più che ghiotta per gli operatori di tutto il Continente. Debuttò, ovviamente, Atene, ma l’anno successivo toccò all’Italia, rappresentata da Firenze.
Firenze, Bologna, Genova
La Regione Toscana, con l’apposita legge n.42 del 01 settembre 1986, stanziò, ben un miliardo di lire per supportare il capoluogo nell’organizzazione delle diverse manifestazioni. Alla fine il conto avrebbe raggiunto i 32 miliardi di lire tra fondi privati, pubblici ed europei.
Sull’Arno però si contarono più di 650 mila visitatori e 184 eventi, divisi tra mostre, concerti, spettacoli di prosa, convegni e rassegne cinematografiche. Tra Ponte Vecchio e Piazza della Signoria si incontravano Leopold Senghor e Carl Popper, Eugene Ionesco e Ingmar Bergman, Zubin Metha e Paul Sacher: tutti presenti a quello che fu un lussuoso biglietto da visita per la città ed un eccellente traino per gli anni successivi.
Diciotto anni dopo fu nuovamente il turno dell’Italia. Il programma Bologna2000, con un bilancio totale di 34 milioni di euro, seguì il fil rouge che lega cultura e comunicazione, organizzando una fitta rete di eventi e manifestazioni. Le indagini precedenti (fonte: MEDEC) all’evento dimostrano le alte aspettative che i cittadini nutrivano nei suoi confronti. L’83,7% degli intervistati si aspettava numerosi benefici per la città e la sua provincia, in termini d’immagine, sociali ed economici.
Purtroppo (Zan, Bonini Baraldi e Onofri, 2013) la città non seppe sfruttare appieno l’occasione: gli scarsi investimenti degli anni successivi, l’assenza di una pianificazione a lungo termine e la mancanza di una precisa valutazione delle azioni intraprese determinarono risultati deludenti.
Diverso fu il caso di Genova, capitale quattro anni dopo. All’ombra della Lanterna si erogarono 241 milioni di euro per il progetto GeNova04: l’indotto generato rasentò il doppio della spesa, 440 milioni. L’88,5% dei genovesi si dichiarò soddisfatto dei cambiamenti della propria città (fonte: Demoskopea), soprattutto in termini di visibilità, di restauri nel centro storico e nel porto, di afflusso turistico e immagine, lontana da quella sanguinante e tumultuosa, degli scontri in occasione del G8. Grazie all’eccellente copertura mediatica dell’evento tutto il mondo parlò di Genova che, ancora oggi a dieci anni di distanza, si definisce a buon diritto città turistica.
Firenze e Genova rappresentano una dimostrazione eccellente di come la cultura possa aiutare l’economia di una città, soprattutto grazie agli aiuti dell’Unione Europea. Ma, come dimostra il caso di Bologna, i soldi non bastano, se non impiegati secondo una lungimirante pianificazione dilatata nel tempo. Con la cultura, dunque, si mangia, indipendentemente dal menu e dal ristorante. Ma dovrà essere bravo il cuoco a convincerci nuovamente a sedere a quel tavolo.
Jacopo Rossi