Vetrine rotte, saccheggi, feriti. Mercoledì 10 gennaio la capitale della Papua Nuova Guinea è stata teatro di diffusi disordini. Sono almeno 16 i morti. Proprio mercoledì una parte dei poliziotti e degli impiegati pubblici del Paese ha scioperato e protestato davanti al Parlamento contro una inaspettata riduzione dello stipendio. Il primo ministro James Marape ha dichiarato lo ‘stato di emergenza’ per due settimane.
Il caos per le vie
Migliaia di persone per strada. Sulle spalle e in braccio hanno oggetti di vario genere, tutto ciò che hanno potuto sottrarre da negozi e supermercati. Si aggrediscono anche tra loro. Di forze dell’ordine non c’è neanche l’ombra. E chi c’era si voltava dall’altra parte. Le fiamme hanno distrutto dozzine tra edifici e macchine, e il fumo copre il cielo dell’Oceania.
A bruciare anche il corpo di guardia del Parlamento. Una situazione – come descritto da molti presenti – di totale anarchia. Alcuni rivoltosi, definiti dal governo «opportunisti», hanno tentato di sfondare i cancelli della struttura dove lavora lo stesso James Marape.
L’amministratore delegato dell’ospedale centrale di Port Moresby ha dichiarato 9 persone decedute per le ferite. E questo – un bilancio provvisorio – solo nella capitale. Cui si aggiungono i 7 morti nella città di Lea, distante 35 chilometri. Il 911 avrebbe risposto a oltre 40 richieste di soccorso per gravi ustioni e ferite da arma da fuoco. E al personale delle strutture ospedaliere è stato chiesto di «stare in allerta per una risposta di massa».
Giovedì 11 gennaio la situazione è sembrata più tranquilla. Il governo locale ha chiesto ai residenti delle due città di rimanere in casa. Il trasporto pubblico è stato interrotto e molti esercizi commerciali sono rimasti chiusi per evitare ulteriori attacchi e danneggiamenti. L’ambasciata statunitense, dopo aver registrato lo sparo di colpi nelle sue vicinanze, ha avvertito: «La relativa calma può svanire da un momento all’altro».
E la polizia dov’era?
Una riduzione nella busta paga che nessuno entro le forze dell’ordine si aspettava. Questo il motivo del diffuso sciopero di agenti che dalle 10 della mattina di mercoledì ha abbandonato ampi settori del Paese in mano alla barbarie. Dalla notte al giorno lo stipendio era stato tagliato di 300 Kina, circa 120 dollari americani. Una cifra che sembrerebbe irrisoria, se non fosse che in Papua Nuova Guinea corrisponde a metà del salario di una persona appena assunta.
A generare la decisione di incrociare le braccia il timore dell’imposizione di una nuova tassa alla polizia. Il governo ha smentito l’accusa, affrettandosi a scaricare le colpe su un ‘errore amministrativo’. «Si è trattato di una svista da parte degli addetti alle buste paga del governo», ha spiegato Marape. Il ministro delle finanze Samuel Penias ha invece puntato il dito contro un problema tecnico nel sistema. E ha chiesto nuovamente scusa alle forze dell’ordine: «È irrispettoso nei confronti della nostra polizia e di qualsiasi altro funzionario pubblico interessato».
La reazione del governo
Giovedì il primo ministro James Marape ha ordinato alla polizia e all’esercito di prendere nuovamente servizio e ristabilire l’ordine per le vie. «Le autorità non erano al lavoro ieri in città e la gente ha fatto ricorso all’illegalità», ha dichiarato in conferenza stampa. Mille agenti sono stati trasferiti nella capitale e posti in allerta, pronti a reagire a una nuova possibile escalation di violenza. Poi la promessa ai negozianti danneggiati: «Abbiamo preso nota delle vostre perdite, ci scusiamo e valuteremo una misura di sgravio fiscale».
Sei parlamentari si sono dimessi, dichiarandosi «scioccati» e «pieni di vergogna per la negligenza burocratica e la confusione». Di qui l’impossibilità di sostenere «un governo che resta a guardare mentre il caos prende il sopravvento». E la richiesta a Marape di dimettersi in un momento politicamente delicatissimo per l’attuale primo ministro. Il mese prossimo scadrà il periodo di grazia, che impedisce un voto di sfiducia nei suoi confronti. Il rischio di perdere la poltrona ora è drammaticamente elevato.
C’è però anche chi crede che dietro ai disordini ci siano motivazioni politiche. «Probabilmente [il caos] è stato incoraggiato da alcune fazioni politiche, che vogliono dimostrare che il governo non sta funzionando», ha dichiarato Paul Barker del PNG Institute of National Affairs. Non solo. L’aumento del costo della vita e la migrazione continua di persone verso la capitale – causa di instabilità abitativa – ha certamente contribuito alla furia saccheggiatrice. Ha spiegato ancora Barker: «I problemi di legge e ordine che prima erano concentrati in poche province del paese si sono in realtà intensificati in molte altre province». E la situazione, già in equilibrio precario, non dà segni di stabilità.