Iran, continua la “rivolta della benzina”: in migliaia in strada

Non si ferma la “rivolta della benzina” in Iran, colpito dal quarto giorno di proteste consecutive dopo la decisione dello scorso 15 novembre di aumentare il prezzo del carburante. Sono 88 mila le persone scese in strada in oltre 100 città, e un bilancio non ufficiale parla di una dozzina di morti e un migliaio di arresti.

Seppur trapelano poche informazioni, gli scontri sono violenti. Difficile appurare l’entità dei disordini a causa della riduzione dell’accesso a internet. In tutto il Paese sono stati incendiati o saccheggiati 57 negozi e un centinaio di agenzie bancarie. A Kermanshah alcuni uomini armati hanno preso di mira una stazione di polizia e hanno ucciso un ufficiale. A Teheran, in piazza Sadegian, una succursale della Maskan Bank è stata data alle fiamme. Oltre che nella capitale, i maggiori danni si sono verificati nelle province di Khuzestan, Fars e Kerman.

Tutto è iniziato la mattina di venerdì 15 novembre, quando i cittadini iraniani si sono svegliati scoprendo il rincaro della benzina in seguito alla riduzione dei sussidi statali. Gli acquirenti possono ora comprare massimo 60 litri di benzina a 15 mila rial, cioè 11 centesimi al litro. Un rialzo del 50% rispetto al prezzo precedente.

I manifestanti hanno bloccato le principali arterie delle città, parcheggiando le macchine in mezzo alla strada, usando a volte anche Waze, l’app israeliana che indica dove si trovano gli ingorghi.

La polizia ha lanciato un duro monito contro i dimostranti, dichiarando che verranno affrontati con decisione. Parole condannate dalla Casa Bianca, che attraverso il segretario di Stato Mike Pompeo ha fatto sapere al popolo iraniano che «Gli Usa vi ascoltano, vi sostengono, sono con voi». La replica di Teheran non tarda ad arrivare: «Il sostegno espresso dagli Stati Uniti “a un gruppo di rivoltosi” anti-governativi scesi in piazza contro il caro benzina in Iran è un’ingerenza negli affari interni della Repubblica islamica».

Il prezzo del greggio in Iran rimane uno tra i più bassi al mondo, ma nei Paesi produttori di petrolio i cittadini considerano i sussidi un diritto. L’innesco di un’ulteriore miccia per un popolo colpito da un tasso d’inflazione che ha raggiunto il 40%.

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