In Europa la mezzanotte è passata da qualche minuto. A Bruxelles Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo, si presenta davanti in una sala stampa gremita di telecamere, microfoni e computer. Il vestito è lo stesso che ha tenuto tutto il giorno: non ha avuto tempo nemmeno di cambiarsi. Il volto è pallido: sei ore di discussioni e trattative ininterrotte sono lunghe anche per chi, come lui, mangia e respira politica. «Stiamo andando nella giusta direzione, ma l’accordo ancora non c’è». Le parole escono con un sorriso tirato. Poi – dalla stessa porta da cui era entrato – esce di scena.
Dalle 18 si erano ritrovati intorno allo stesso tavolo i 27 capi di Stato e di governo europei. Una riunione informale convocata da Michel e in presenza dei presidenti uscenti del Parlamento, Roberta Metsola, e Commissione, Ursula von der Leyen. Poco prima dell’inizio della cena le due si sono allontanate per permettere un dialogo senza interferenze tra le varie parti. Che però, almeno per il momento, non è stato fruttuoso.
La popolare impopolare
La prima partita da risolvere è quella della Commissione, che funge da esecutivo europeo. Il Trattato comunitario sancisce chiaramente che è compito del Consiglio – quella stessa riunione di capi di Stato e di governo – proporre al Parlamento un nome, rispettando i risultati elettorali. Un percorso, dunque, di doppia approvazione: a maggioranza qualificata il primo (15 Stati su 27 favorevoli, a patto che rappresentino almeno il 65% della popolazione Ue); a maggioranza semplice il secondo (361 eurodeputati su 720). Ma due stadi significano due ostacoli.
Per il Ppe, vincitore delle ultime europee, il nome è quello di Ursula von der Leyen. L’ultimo marzo la 65enne è stata indicata durante il Congresso di partito a Bucarest come candidata di punta. Ben 400 ‘sì’ su 489 per spingere verso un bis alla presidenza della Commissione. Incassato il sostegno quasi plebiscitario della sua parte politica, von der Leyen non ha esitato a porre tre insindacabili condizioni agli altri partiti. Per entrare nell’esecutivo di maggioranza con i popolari bisogna essere pro-Europa, pro-democrazia e pro-Ucraina.
Troppo spesso, però, si ignora l’altra faccia del Congresso di Bucarest. Quegli 89 ‘no’, più 10 assenti al voto, che sottolineano una piccola crepa all’interno del Ppe. Ursula von der Leyen è la candidata di quasi tutti: il centrodestra tedesco tentenna, quello francese si è già sganciato. I Républicains non hanno ben visto il Green Deal propugnato dall’esecutivo, ritendendolo una ‘politica di decrescita promossa dalla sinistra’. A nulla sono valsi i passi indietro della politica tedesca.
Lo scacco del Consiglio
Il 9 giugno, poco dopo le 23 italiane, i primi exit poll danno già per certa la riconferma del Partito Popolare Europeo. Quella sera stessa Ursula von der Leyen contatta i due alleati che negli ultimi 5 anni l’avevano sostenuta nel suo esecutivo: i liberali di Renew Europe e i socialisti di S&D. Ma l’accordo tra le tre parti non è certo gratuito. Se al Ppe spetta la presidenza della Commissione, sia centro che centrosinistra vogliono avere delle pedine nello scacchiere europeo. In nome della celebre regola non scritta dell’alternanza nei top jobs, le cariche apicali dell’Unione.
Secondo questa logica a S&D, seconda forza europea, toccherebbe la presidenza del Consiglio europeo. L’incarico è senza poteri legislativi ma monitora sull’Unione a livelli elevatissimi, dalla politica estera comune alla gestione dei momenti di crisi. È rieletto ogni due anni e mezzo, ma di solito – come nel caso di Michel – lo stesso nome è riconfermato per due volte in modo da terminare la legislatura senza scossoni. Ed è proprio qui che si inserisce il primo sassolino nell’ingranaggio.
I popolari, nel tavolo di lunedì sera, lanciano una provocazione: prima un nome socialista poi uno del centrodestra, in un’altalena già predefinita a tavolino. La rottura alla tradizione è mal digerita dagli esponenti di S&D, che fanno muro portando al nulla di fatto finale. Ci si riaggiornerà, probabilmente, alla riunione del Consiglio del 27 e del 28 giugno. Questa volta le discussioni avverranno, però, a livello ufficiale.
Blu, bianco, rosso e Verdi
A chiudere la maggioranza i liberali. Nonostante le sconfitte elettorali, Renew Europe può essere l’ago della bilancia per l’esecutivo di Ursula von der Leyen. Esattamente come cinque anni fa, quando il Ppe propose Manfred Weber e il presidente francese Emmanuel Macron fu tra i più duri oppositori di quella candidatura. Forzando, così, il Consiglio a virare sull’attuale presidente uscente della Commissione.
Anche questa volta il veto di Macron può essere decisivo. E la situazione infiammata di casa rema contro il ‘von der Leyen bis’. La 65enne è infatti profondamente impopolare in Francia: gli stessi popolari d’oltralpe, i Républicains, si oppongono. Il primo turno delle politiche anticipate si terrà il 30 giugno, due giorni dopo la sessione del Consiglio europeo. Se durante questa Macron dovesse sostenere la rielezione di Ursula von der Leyen, è difficile non immaginarsi ricadute sulla popolarità del presidente. Che già in questo momento è dato sotto il 20% nei sondaggi.
Nelle ultime settimane, poi, anche i Verdi hanno iniziato a gravitare intorno alla maggioranza ‘vonderleyeniana’. «La sosterremo solo se inclusi nell’ampia coalizione centrista al governo», è il prerequisito posto da Bas Eickhout, uno dei due spitzenkandidat del partito di sinistra. Una collaborazione a cui il Ppe non ha chiuso le porte, consapevole però che una scelta di questo tipo orienterebbe inevitabilmente lo scacchiere politico in una direzione ben precisa. L’alleanza con i verdi escluderebbe qualunque speranza di apertura verso la destra in crescita, in particolare quella dei Conservatori e Riformisti (Ecr).
C’era da aspettarselo, appartenendo a due opposti della raggiera ideologica europea. E la reciproca esclusività del rapporto con la maggioranza – o noi o loro – è stata anche resa esplicita dai leader dei Verdi. «Siamo pronti a far parte di questa maggioranza perché vediamo il pericolo che l’esecutivo si sposti a destra», ha detto sempre Eickhout. «Siamo pronti al compromesso, siamo politici pragmatici». E in questo compromesso è inclusa una negoziazione sul Green Deal, che il Ppe ha duramente criticato negli ultimi mesi di campagna elettorale.
Meloni o non Meloni
«Un’assenza di contatti con Ursula von der Leyen sarebbe una completa mancanza di rispetto». La belga Assita Kanko, vicesegretaria dell’Ecr, non tiene a freno le mire del suo partito. Il successo elettorale di inizio giugno ha reso evidente che le forze di destra sono in crescita. E ora pensano di meritarsi una sedia al tavolo dei grandi. Con numerose proteste da parte dei socialisti, che non vedono rispettati da Giorgia Meloni e compagni i tre prerequisiti chiariti dalla presidente della Commissione. Il pro-Ucraina non è in discussione, ed è forse l’unico punto su cui l’Ecr può sentirsi tranquillo. Sul pro-Europa e pro-democrazia qualche dubbio è legittimo che sorga, vista la presenza nel gruppo europeo degli ultraconservatori spagnoli di Vox e del PiS polacco.
Le ultime mosse di Ursula von der Leyen, e il suo evidente avvicinamento a Giorgia Meloni, hanno sollevato l’ipotesi di un’alleanza tra le parti. «[von der Leyen] ha fatto un ottimo lavoro, ma ci deve convincere con le proposte programmatiche per i prossimi anni», è il giudizio di Kanko sulla 65enne tedesca. Ma anche dalla parte popolare non mancano gli spiragli di lavoro: «In occasione di leggi importanti, ci rivolgeremo a deputati disposti ad ascoltare e a votare per noi», ha detto il segretario generale del Ppe Thanasis Bakolas. «Questo perché molti legislatori più a destra sono pro-Europa e pro-Ucraina». Un riferimento molto poco velato alla presidente del consiglio italiana, definita «leader molto apprezzato e attore costruttivo sulla scena europea».
E ora?
Insomma, Ursula von der Leyen è tirata dalla giacchetta in due direzioni. Da una parte i Verdi, forza stabile che garantirebbe una tranquilla gestione dell’esecutivo composito per il prossimo quinquennio. Dall’altra la destra conservatrice alla ribalta, che ha più seggi dei Verdi ma creerebbe non poche frizioni interne alla maggioranza. In ogni modo, l’opzione più sicura per ottenere la sedia di presidente della Commissione sembra un tetrapartito.
Al momento i tre pilastri (Ppe, S&D e Renew) hanno a disposizione 406 seggi. Più che sufficienti a raggiungere la maggioranza semplice in Parlamento, se non fosse per quel 10-15% di franchi tiratori che si sganciano dalle posizioni del loro partito in fase di voto segreto. Nel 2019 la stessa von der Leyen era stata eletta con il margine risicato di 9 voti.
Il Ppe ha bisogno di Giorgia Meloni? A rigor di logica no. Ma i 76 seggi dell’Ecr, così come i 52 dei Verdi, fornirebbero una certa tranquillità alla candidatura. La premier italiana potrebbe essere spinta verso il centro dalla volontà di Marine Le Pen di formare un grande gruppo di destra. Una nuova formazione che ingloberebbe proprio quelle frange più conservatrici di Ecr che fanno storcere il naso a socialisti e liberali.
Meloni stessa, però, dovrà darsi da fare per favorire un rimpasto dell’esecutivo che si rivolga maggiormente a destra. Consapevole che uno strappo simile escluderebbe qualunque collaborazione con i Verdi e renderebbe necessaria una profonda opera di convinzione nei confronti di S&D e Renew. Un lavoro forse troppo oneroso a otto giorni dal Consiglio europeo. Rimane alto il rischio che, a fine giugno, la sessione si chiuda nuovamente con un nulla di fatto. E con Charles Michel che, pallido in sala stampa, sarà costretto ad annunciare: «L’accordo ancora non c’è».