
Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti sono vicini a un accordo bilaterale sui dazi con un «grande Paese». Secondo tre fonti vicine al dossier, citate dal New York Times, potrebbe trattarsi della Gran Bretagna. Un primo passo in avanti verso un nuovo equilibrio economico che, per ora, è messo a dura prova.
L’ordine economico incrinato dai dazi
Distruggere è notoriamente più facile che costruire. Anche quando si tratta dei pilastri dell’economia globale. Lo ha dimostrato Donald Trump con i suoi dazi: minacciati, annunciati, ritirati, ma comunque andati a segno. Circa 10.000 miliardi di dollari bruciati sui mercati, squilibri inediti, una possibile guerra commerciale con la Cina e lo spettro di una recessione mondiale.
I fondamenti del mercato globale, costruiti in quasi un secolo, sono stati messi in discussione in pochi giorni. Le decisioni capricciose e imprevedibili del tycoon hanno alimentato l’incertezza e aperto scenari impensabili.
A dimostrare l’impatto, l’indice VIX, il “termometro della paura” di Wall Street. L’indicatore misura le aspettative di volatilità di S&P500, il principale indice della Borsa americana, e segnala quanto gli investitori temano movimenti improvvisi dei prezzi. Dopo l’annuncio dei dazi, il VIX ha superato due volte il 50%, raggiungendo livelli da crisi del 2008 e pandemia. Solo dopo il dietrofront della Casa Bianca è sceso sopra il 30%, restando comunque in area d’allerta.
Il mercato, infatti, non chiede solo tariffe basse, ma la certezza che le regole del commercio mondiale restino stabili. La fiducia è il vero motore della finanza: senza stabilità e previsioni credibili, l’incertezza continuerà a pesare sull’andamento delle Borse.
Le scelte di Trump hanno stravolto i comportamenti degli investitori. Nei periodi di incertezza, per oltre 80 anni, gli asset sicuri sono stati il dollaro e i titoli del Tesoro statunitensi. Questa volta, però, gli Stati Uniti stanno sperimentando una fuga di capitali inedita.
Dollaro e Titoli del tesoro americani non sono più beni rifugio?
I rendimenti dei titoli di Stato decennali sono passati dal 4,2% al 4,5% nell’ultimo mese, toccando i massimi da febbraio. Nel frattempo, il dollaro ha perso oltre il 9% rispetto alle principali valute mondiali.
Un tempo, politici e investitori guardavano con scetticismo all’idea che il dollaro potesse essere detronizzato. Il peso economico di Washington, i mercati profondi e redditizi, l’apertura ai capitali e l’affidabilità dello Stato di diritto rendevano dollaro e bond asset invidiabili.
Negli ultimi mesi, però, non solo la stabilità finanziaria, ma anche uno dei valori fondanti degli Stati Uniti, quello democratico, sembra vacillare. E così l’asset privilegiato dagli investitori è tornato a essere il bene rifugio che non passa mai di moda: l’oro. Il 22 aprile il metallo giallo ha toccato per la prima volta nella storia i 3.500 dollari l’oncia, chiudendo poi a 3.422,40.
Alle politiche commerciali si sono aggiunti i rapporti tesi tra Trump e Jerome Powell, presidente della FED. In condizioni di squilibrio come questa, la banca centrale avrebbe normalmente tagliato i tassi di interesse. Ma i dazi faranno aumentare i prezzi di tutto ciò che l’America importa, causando inflazione e, di conseguenza, la necessità di tassi più alti. Nel lungo periodo, l’economia USA rischia di diventare meno competitiva e meno specializzata. Meno importazioni significano meno concorrenza e prezzi più elevati. Il risultato sarà un calo del reddito reale e della capacità di spesa degli americani.
Una recessione globale?
Sullo sfondo, intanto, si fa più nitido lo spettro di una recessione globale. Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), il Pil mondiale rallenterà dal 3,3% del 2024 al 2,8% nel 2025, per poi risalire al 3% nel 2026. Rallentamento che nell’Eurozona si tradurrà in uno 0,8% di crescita, rispetto alle stime iniziali dell’1%. Per l’Italia, invece, la crescita sarà solamente dello 0,4%, in calo dallo 0,7% di un anno fa.
Trump ha sempre visto il mondo come una trattativa da condurre senza mai mostrare debolezza. «La cosa peggiore che si possa fare in un affare è sembrare disperati di farlo», scriveva nel 1987 in The Art of the Deal, la sua autobiografia. Ma i mercati non funzionano come una contrattazione privata. Senza fiducia e regole condivise, non si tratta: si arretra. E, alla fine, anche chi pensa di aver vinto rischia di ritrovarsi con molto meno di quanto immaginava.