
Bill Emmott è un giornalista inglese, dal 1993 al 2006 direttore del settimanale The Economist. Con la stessa rivista, un caposaldo dell’informazione politico-economica anglosassone, Emmott aveva cominciato a collaborare all’inizio degli anni Ottanta, prima da Bruxelles e poi da Tokyo. All’epoca il Giappone appariva all’Occidente come un Paese in rapida ascesa sull’onda della globalizzazione. Un’opinione che Emmott, nel suo best-seller The Sun Also Sets (1989), ha provveduto a confutare, mostrando come la globalizzazione vada interpretata almeno su tre fronti: la politica, la tecnologia e i mercati.
Durante la sua direzione, Emmott si è fatto notare in Italia per le sue critiche pungenti a Silvio Berlusconi, che definì “inadatto a governare”. Un giudizio che non si è fermato alla carta stampata: nel 2012 ha co-sceneggiato con la regista Annalisa Piras il documentario Girlfriend in a Coma, un’analisi amara e appassionata del declino politico ed economico italiano a partire dagli anni Novanta, girato nel pieno del governo Monti.
Lunedì 5 maggio, ospite del professor Alberto Mingardi, Emmott ha tenuto all’Università Iulm una lectio magistralis dal titolo “I miei quarant’anni di scrittura sull’economia politica della globalizzazione”, al termine della quale ha risposto ad alcune domande per MasterX.
Donald Trump ha incrinato l’ordine economico globale?
«Trump ha introdotto elementi di discontinuità nella logica dell’interdipendenza economica. Gli Stati Uniti, che restano la più grande economia del mondo – anche se non i maggiori esportatori – hanno un’influenza sistemica. Le sue politiche, soprattutto sui dazi, danneggiano l’idea di un commercio globale integrato. Tuttavia, è importante ricordare che gli USA rappresentano solo una parte del quadro: ci sono altri circa 200 Paesi che insieme controllano l’87% del commercio globale e circa il 75% del PIL mondiale che continueranno a essere economicamente interdipendenti. Trump non distruggerà la globalizzazione. Al massimo, la distorcerà o la indirizzerà lungo traiettorie differenti.»
Come risposta Europa e Giappone potrebbero intensificare i rapporti economici con la Cina?
«In linea teorica potrebbero, ma nei fatti ci sono dei limiti significativi legati alla sicurezza. Per il Giappone, la Cina rappresenta una minaccia strategica. Tokyo è circondata da tre fonti di pericolo: la Cina stessa, la Corea del Nord e la Russia. Quindi, per quanto ci possano essere interessi economici comuni, le tensioni geopolitiche freneranno una cooperazione più profonda. Inoltre, la presenza della più grande base militare americana fuori dagli Stati Uniti proprio in Giappone rende chiaro che l’alleanza con Washington resta imprescindibile per Tokyo. L’Europa, pur con meno vincoli militari, dovrà comunque tenere conto delle proprie relazioni transatlantiche.»
Qual è oggi il vero motore della globalizzazione?
«La risposta è la stessa di sempre: la tecnologia. È lei a spingere i confini, a creare connessioni, a rendere possibile l’integrazione tra economie molto diverse. Paradossalmente, Donald Trump, che ha fatto dell’America First un mantra anti-globalista, è circondato da figure come Elon Musk e Mark Zuckerberg, imprenditori che hanno fatto la loro fortuna grazie alla globalizzazione. Una contraddizione emblematica del nostro tempo: si può proclamare il ritorno al nazionalismo, ma la realtà tecnologica va in direzione opposta.»
Parliamo della cosiddetta “tecno-destra”.
«Sì, ed è una “tecno-destra” divisa al suo interno. Da un lato abbiamo personaggi come Peter Thiel, che spingono per ridurre il ruolo dello Stato; dall’altro, ci sono soggetti che vogliono conquistare il potere politico per adattare le regole alle proprie necessità economiche, come Elon Musk. Mi ricorda, per certi versi, l’egemonia delle grandi compagnie petrolifere del secolo scorso. La concentrazione di potere – qualunque sia la sua origine – è sempre un rischio per la democrazia.»
Le politiche di Trump rischiano anche di mettere a repentaglio l’egemonia del dollaro.
«Potenzialmente sì. Se Trump dovesse proseguire con un’agenda commerciale aggressiva e instabile, allora il ruolo del dollaro potrebbe essere messo in discussione. Detto ciò, molto dipenderà anche dalla risposta delle altre valute e dalle istituzioni che le sostengono».
L’euro potrebbe sostituire il dollaro?
«Teoricamente. Ma la vera domanda è se l’Unione Europea voglia e sappia compiere i passi necessari per raggiungere quell’obiettivo. Servirebbero un maggiore debito comune, una vera unione dei capitali e riforme incisive del mercato unico. Non penso che l’euro supererà il dollaro a breve termine, ma sicuramente potrebbe accrescere la propria rilevanza, soprattutto in un mondo multipolare in cui anche la Cina spinge per l’internazionalizzazione dello yuan. Potrebbe emergere un sistema con più valute di riferimento nei prossimi decenni.»
Come giudica il rapporto di Giorgia Meloni con Donald Trump?
«Giorgia Meloni è una leader pragmatica e realista. Penso che si renderà conto abbastanza presto che i benefici, per lei e per l’Italia, derivano molto più dall’Europa che da una relazione bilaterale con Trump. A meno che l’Unione Europea non si frammenti ulteriormente o non si incammini verso una deriva conflittuale, credo che per Meloni sarà sempre più evidente».