76 anni fa il decreto Bonomi sanciva il diritto di voto alle donne

Primordiale e radicata era la convinzione che il binomio donne e politica provocasse un suono spiacevole all’orecchio dell’uomo. Persino Aristotele, nella sua “Politica”, sosteneva che «la libertà concessa alle donne (fosse) dannosa alla felicità dello stato».

Oggi però è «un giorno bellissimo», ricalcando le parole della scrittrice Anna Banti, 76 anni fa, il 1° febbraio 1945, il governo guidato da Ivanoe Bonomi, riconosceva il diritto di voto femminile. Con il decreto legislativo n.23, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi, l’Italia sanciva l’inizio del suffragio alle donne.

Il ritardo italiano

L’inclusione delle donne nella vita politica, in un paese spaccato in due dalla guerra, si fece strettamente inevitabile. L’Italia giunse alla decisione in netto ritardo rispetto al resto dell’Europa: già dopo la Prima Guerra Mondiale, infatti, numerosi paesi avevano già introdotto il suffragio femminile, prima fra tutti la Gran Bretagna. Complice la lotta delle Women’s Suffrage Societies che permise alle donne inglesi di essere ammesse al voto nel 1928.

Movimento delle Suffragette

Le donne italiane erano già state escluse dalla riforma del 1882 e da quella del 1912, che introduceva il suffragio universale maschile. Ironia della sorte, fu Benito Mussolini il primo ad aprire uno spiraglio. Spiraglio che si rivelò utile solo alla sua propaganda. Le donne, infatti, furono ammesse al voto amministrativo nel 1924, voto che fu però proibito poco più tardi dalle “leggi fascistissime”.

Il decreto Bonomi

La prima richiesta arriva nell’ottobre del ’44, con la Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), nel nuovo Governo di Liberazione Nazionale. Niente di concreto, però, fino a quel febbraio del ’45, in cui venne firmata l’“Estensione alle donne del diritto di voto”.

Il decreto sanciva il bacino di donne che poteva godere del nuovo diritto: cittadine italiane con 21 anni compiuti, escluse, invece, le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

«É una grande vittoria della democrazia, (…) una forza politica nuova viene immessa nella vita nazionale», scriveva l’Unità all’alba del nuovo decreto. L’Italia imparava a guardare alla politica con due occhi.

«Un diritto che venne riconosciuto in extremis – come ha affermato Marisa Rodano, deputata e senatrice italiana – ma che non fu una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa e di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese».

La prima volta alle urne

L’esordio alle urne arrivò con le elezioni amministrative nel marzo del ’46 ma fu nel 2 giugno dello stesso anno che le donne parteciparono al referendum istituzionale per scegliere tra monarchia e repubblica e all’elezione dell’Assemblea Costituente.

Pagina di giornale che illustra le 21 donne che parteciparono all’Assemblea Costituente dopo il primo voto

Quella mattina il Corriere della Sera titolava in un articolo: “Senza rossetto nella cabina elettorale”. Un’indicazione frivola ma che sottoscriveva la rivoluzione che stava avvenendo nella vita delle donne italiane.

«Nella cabina di votazione, avevo il cuore in gola e avevo paura di sbagliarmi (…) – dice Anna Banti – Forse solo le donne possono capirmi (…). Era un giorno bellissimo. Quando i presentimenti neri mi opprimono, penso a quel giorno, e spero».

Grazie al decreto di marzo 1946,  fu concesso alle donne maggiori di 25 anni il diritto di voto passivo. Nella Costituente furono elette 21 rappresentanti, un piccolo gruppo che prese l’appellativo di “donne del ‘46”.

Appartenenza

Nello sforzo dell’emancipazione e nella storia della politica italiana, il 1 febbraio 1945 segna un passo decisivo. Un cambiamento che permise alle donne del nostro Paese di assaporare e di appropriarsi di quel senso di appartenenza di cui parla Gaber, l’«avere gli altri dentro di sé». Uno sguardo duplice sulla politica, un’ulteriore prospettiva sulle sensibilità dei cittadini oggi più che mai da perseguire.

Viola Francini

Di sangue toscano, vivo a Milano da 4 anni e sogno il giornalismo da quando ne avevo 9. Innamorata dell’arte in tutte le sue forme, guardo il mondo con il filtro della poesia sugli occhi. Mi piace raccontare la cultura, quella che parla di società e realtà umane. Laureata in Linguaggi dei Media all'Università Cattolica, ho collaborato con la redazione NewsMediaset e scrivo per MasterX come giornalista praticante.

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