«L’approccio adottato in Italia nei confronti dello spettacolo dal vivo è sbagliato. Ai luoghi della cultura è stato attribuito uno stigma di pericolosità che non corrisponde alla realtà dei fatti e non è supportato da nessun dato». Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura di Milano dal 2013, muove le sue critiche sulle scelte fatte in materia di cultura e che sono contenute nel primo dpcm del governo Draghi.
Assessore, nella gerarchia della pericolosità sopra i teatri ci sono solo le palestre, i ristoranti sono aperti da mesi, mentre per i teatri si intravede una speranza solo dal 27 marzo nelle regioni gialle. Cosa ne pensa?
«Il grado di pericolosità che è stato attribuito ai luoghi della cultura è sconvolgente e assurdo, visto che i dati vanno in una direzione totalmente opposta. Con tutto il rispetto per i ristoratori, mi sembra evidente che un ristorante sia più pericoloso di un teatro, visto che per mangiare abbassiamo la mascherina e abbiamo una dispersione salivare infinitamente superiore a quella che avremmo assistendo a uno spettacolo, distanziati e nel rispetto delle misure preventive».
È cambiato il governo, ma continua a non essere soddisfatto delle decisioni prese.
«È passato un anno dalla nascita del coordinamento dei dodici assessori dei capoluoghi di regione italiani del quale faccio parte. Se, in una prima fase, l’interlocuzione con il governo è stata molto positiva, oggi non possiamo più dire lo stesso: non siamo chiamati al tavolo della concertazione delle misure e questo è molto grave. In una città come Milano è impossibile scindere l’offerta museale e teatrale dal Comune, visto che possiede un’altissima percentuale degli spazi espositivi».
Cosa la spaventa di questa situazione?
«L’assenza di alternative alla quale sono stati ridotti i cittadini fa sì che l’unica esperienza sociale possibile sia quella di assembrarsi. È paradossale, ma con queste scelte stiamo dando al virus un’occasione in più per diffondersi. Anziché permettere alle persone di visitare in tutta sicurezza una mostra, stiamo lasciando come unica alternativa gli affollamenti nelle arterie commerciali».
A Milano dal 2 al 6 marzo va in scena la quarta edizione di MuseoCity, quest’anno interamente online. Quanta fiducia ha nel digitale come strumento di diffusione della cultura?
«Il digitale non è da demonizzare, è stato l’unico filo che ha permesso di tenere acceso il rapporto con la comunità degli appassionati di musica, arte, letteratura. Non possiamo però dimenticare che i linguaggi delle arti figurative e performative richiedono per loro stessa costituzione semantica un rapporto diretto con chi ne fruisce, quindi per quanto il digitale sia un eccellente alleato della divulgazione non può in nessun modo sostituirsi all’esperienza dal vivo».
Come hanno accolto i cittadini l’offerta digitale?
«Nell’ultimo anno abbiamo visto manifestazioni come Bookcity e Milano Music Week trasferirsi online. Il pubblico affezionato ha potuto continuare a seguire eventi di questo tipo nonostante la pandemia, ed è stato un bene. L’esperienza ci ha insegnato a non sottovalutare il potenziale di carica innovativa offerto dalle piattaforme online: se prima un dibattito su Bookcity poteva raccogliere l’attenzione delle 200-300 persone in sala, oggi è stato possibile avvicinare diverse decine di migliaia di persone collegate dalle proprie case. Sicuramente un vantaggio».
Quindi dobbiamo aspettarci sempre più eventi digitali per il futuro?
«Il digitale avrà il ruolo di ampliare i possibili utenti delle iniziative, la cui caratteristica cruciale è e continuerà a essere quella dell’esperienza dal vivo. Credo che si andrà sempre più verso dimensioni miste».
Per esempio?
«C’è un caso pre-pandemico molto interessante in questo senso: l’Orchestra Filarmonica di Berlino da anni ha impostato una forma di trasmissione digitale dei concerti che prevede il pagamento di una piccola somma per un abbonamento digitale. È una formula che non ha diminuito la presenza fisica del pubblico a teatro ma ha dato una possibilità in più a tutti coloro che potevano ascoltare i concerti sul computer. Non solo: ha acceso il desiderio di andare ai concerti dal vivo anche tra chi abita fuori città».
Quale sarà la sfida più grande per il futuro?
«Il tema del futuro non sarà tanto quello della produzione degli eventi quanto quello della partecipazione culturale. Dovremo tornare a condividere esperienze con comunità cittadine molto spaventate e che sono state allontanate dalla cultura, superando il blocco causato dalla pandemia. Nella maggior parte delle città italiane stavamo assistendo a una grande espansione culturale con tutti i vantaggi economici che ne conseguono. Ora tutto si è fermato. La vera difficoltà sarà riprendere quel percorso senza lasciare che la pandemia cancelli le nostre conquiste».