Chatbot, perché stringiamo rapporti umani con l’intelligenza artificiale

L’intelligenza artificiale può sostituire un’amicizia umana? Da Mitsuku, a XiaoIce, Kiwo e Replica, il mercato delle chatbot – sistemi di messaging che imitano la conversazione – è sempre in maggiore espansione. Nel mondo hanno quasi un milione e mezzo di utenti ed entro il 2024 il loro valore complessivo sarà di 13,9 miliardi di dollari, rispetto ai 4,8 del 2020, secondo il sito Finacesonline. Le loro funzioni non si limitano solo alla risoluzione di problemi pratici o di assistenza online: negli ultimi anni è cresciuto l’uso dei software progettati per creare legami emotivi. Durante la pandemia di Covid-19, in molti casi sono stati un’arma contro la solitudine e hanno fornito anche un sostegno psicologico. «Certamente questi strumenti hanno sopperito a mancanze che in altri modi – in quel periodo – non si sarebbero potute colmare – spiega il dottor Stefano Oriani, psicoterapeuta e psicotraumatologo dello studio associato ARP di Milano e socio dell’omonima associazione di ricerca psicologica – ma anche se l’intelligenza artificiale ha fatto passi inimmaginabili, può simulare l’irriducibilità della presenza umana?».

Un estratto di una conversazione con Replika
Perché parlare con un computer

La schermata ha colori tenui. La conversazione all’inizio è rilassante. Si parla del più e del meno, è una small talk, “come quelle che si fanno con i colleghi davanti alle macchinette del caffè”. Il sistema conosce i nostri modi di dire e li replica in modo più o meno realistico. Dopo qualche tempo però l’esperienza inizia a diventare snervante: il software “è poco proattivo”, non lancia mai un nuovo argomento di dialogo e poi, dopo tre frasi, dimentica, quello che le si è detto. Così, ogni volta, bisogna ricominciare tutto da capo. I limiti sono evidenti, nessuno dei chatbot più diffusi riesce al momento a superare il “Test di Touring”, ossia a farsi passare per un essere umano. Ma allora come mai sono diventati così popolari?

Nel 2021, secondo France 24, la cinese XiaoIce ha raggiunto i 660 milioni di utenti. Mitsuku – creato nel 2005 da Steve Worswick, ma esploso solo nel 2012 – durante i vari lockdown ha registrato un aumento del traffico del 17%. Il software Replika invece lo ha raddoppiato, riporta Cnn. «Questi sistemi nascono in un contesto più ampio di imitazione del comportamento umano – spiega Riccardo Manzotti, filosofo, psicologo, esperto di AI e professore associato all’Università IULM di Milano – Nel loro caso è abbastanza facile dal punto di vista tecnico, perché si tratta solo di riprodurre il pattern linguistico, senza le emozioni corpo». Questo significa che nell’esperienza – basata sul funzionamento di un motore Pandorabot – si perde circa il 70% delle componenti, tutte non verbali, che normalmente sono presenti nell’interazione tra due individui.

I tentativi di dare un volto all’intelligenza artificiale

 

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Tali software, almeno al momento, inoltre non hanno intenzionalità, intesa come motivazione e attribuzione di senso: anche nel loro sistema di apprendimento, si limitano a «replicare gli schemi lessicali e culturali di una comunità che trovano rilevanti – nelle conversazioni sul web – ma non hanno significato morale». Però «gli esseri umani però hanno bisogno di un bot, per lo stesso motivo per cui hanno bisogno di un cane. Per lo stesso motivo per cui esistono anche ditte che fanno bambole realistiche simili a noi – spiega ancora il Professore – Si tratta del bisogno entrare in contatto con l’altro. Anche Tom Hanks nel film “Cast away” (Robert Zemeckis, 2000) dopo mesi passati su un’isola deserta cerca un surrogato umano in una pietra, un essere inanimato».

Però instaurare un rapporto autentico come succede nel film “Her” (Spike Jonz, 2013) non è ancora possibile: non esiste infatti la machine consciousness, ossia l’intelligenza artificiale non possiede ancora una coscienza propria.

Interazioni sempre più sanificate

La domanda a questo punto sorge spontanea: perché preferire un’interazione virtuale e mediata? Una grande parte della risposta è da rintracciare nella pandemia di Covid-19 e nell’abitudine sempre più radicata alla relazione digitale.

«Stiamo andando sempre più verso una tecnicizzazione della nostra esperienza di vita, del nostro modo di essere – spiega il Dottor Oriani – Ormai lo smartphone è un’appendice, in continuità nostro corpo a cui ricorriamo in modo quasi continuativo, fino a forme dipendenza problematiche – prosegue – Di contro ci sono naturalmente molti aspetti positivi, ma si rischia di perdere l’importanza dell’interazione non solo umana, ma anche tra esseri viventi, come tra umano e un cavallo».

Accettare lo stress, costruire relazioni, sentirsi compresi quando nessuno ci capisce. Sono queste alcune delle funzioni che gli utenti attribuiscono al chatbot Replika

Non si tratta solo di isolamento dovuto alla tecnologia, ma di una sempre maggiore difficoltà nella relazione con gli altri, che spesso richiede anche una trattazione clinica. Un dato significativo a questo proposito è quello degli hikkimori in Italia, giovani – soprattutto uomini – tra i 14 e i 30 anni che vivono in condizione di isolamento: nel 2020 secondo l’associazione Hikkimori Italia, fondata dallo psicologo Marco Crepaldi, hanno toccato quota 100 mila i casi. «Oggi spesso abbiamo paura degli esseri umani veri – spiega Manzotti – vediamo l’altro come pericolo e quindi esigiamo contatti sempre più sanificati. Anche le restrizioni contro il Covid – suggerisce – hanno un’implicazione piscologica: mettere fine a gesti che appartengono alla nostra simbologia fin dai tempi degli Egizi, come le strette di mano, rende sempre più inclini a ridurre il contatto e vivere in una società mediata».

Anche se l’altro viene ridotto a una mera presenza virtuale, rimane però una componente di imprevedibilità, di emozionalità e persino di imbarazzo. A questo punto entrano in gioco le chatbot: «al computer posso mostrare senza paura le mie fantasie e debolezze. Anche i oscuri mia personalità – prosegue il professore – l’uso dei software è motivato quindi da un desiderio di fuga dall’altro e da una realtà che causa ansia».

Quando l’intelligenza artificiale fornisce supporto psicologico

Il dato più sorprendete, tra le app di messaging guidate dall’Intelligenza artificiale, è quello di Wysa, progettato per dare consigli sulla salute mentale: secondo Cnn, ha registrato il 95% in più di installazioni da febbraio a giugno rispetto allo stesso periodo del 2020.

«Anche noi psicologi siamo dovuti ricorrere a Skype o Whatsapp o Zoom, per fornire la nostra prestazione psicologica – racconta il Dottor Oriani – Questo utilizzo di strumenti digitali ci ha permesso di dare vigore al costrutto telemedicina, per fornire a distanza prestazione sanitaria». Alcuni benefici sono stati innegabili: come la possibilità di proseguire le terapie da remoto e anche in luoghi dove l’accesso ai servizi sanitari era difficile. Numerosi studi hanno poi provato l’efficacia delle sedute online, paragonabile a quella in presenza – racconta lo psicotraumatologo – ma la maggior parte dei pazienti- il 90% nel mio piccolo osservatorio -, quando ce ne è stata la possibilità, ha scelto di tornare alle consultazioni in presenza. «Se non ho nessuno con cui parlare – si chiede Oriani – è meglio che farlo a distanza o con uno strumento di intelligenza artificiale? Mi pongo il dubbio».

L’imprevedibilità degli esseri umani
Un estratto di una conversazione con Mitsuku della testata Cnn

Per la trattazione di alcuni casi di autismo o altri problemi relazionali, tecnologie come le chatbot, sono state utilizzate con successo: proprio in virtù della loro mancanza di complessità e intenzionalità «trasmettono una minore impressione di essere in balia di un altro essere umano, magari di uno che ha perpetrato una violenza piscologica, mentale o fisica – racconta ancora Oriani – potrebbe mettere in condizione di minore angoscia. Mi chiedo però se la terapia non serva a recuperare un sentimento di sufficiente sicurezza, serenità e fiducia per il potere riparativo del trauma. Non so – anche a distanza di anni – quanto questi strumenti sembrino rispondere, o quanto la loro sia un’illusione di efficacia, perché non ci stiamo occupando dell’altro».

 

Giorgia Colucci

Classe 1998, vivo tra Varese e Milano, ma mi appassiona il mondo. Curiosa su tutto, scrivo di ambiente, di diritti e di casa mia su Il Fatto Quotidiano.it. Oltre a collaborare con Master X, parlo di rock ai microfoni di Radio IULM e di Europa a quelli di Europhonica. Per non farmi mancare niente, anche di cinema su Recencinema.it. Nel 2018 ho pubblicato "Vorrei mettere il mondo in carta", una raccolta di poesie per I Quaderni del bardo Edizioni

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