Hikikomori e Coronavirus, quando il lockdown
non finisce con la fase 2

Succede che tutto si ferma, e il mondo diventa la tua stanza. Nessun contatto con l’esterno, con amici o parenti. Niente sport o svago. Una situazione che per la prima volta nella storia ha accomunato la quasi totalità della popolazione italiana, se non mondiale, sotto la formula del lockdown. Una quarantena che è stata insopportabile quasi per tutti.

Eppure ci sono persone che vivono in uno stato di isolamento perenne, e le fasi due, tre o quattro poco cambieranno la loro vita. Sono gli Hikikomori, termine giapponese che vuol dire “stare in disparte”, e indica proprio coloro che decidono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, rinchiudendosi nella propria abitazione senza aver alcun contatto con il mondo.

Tra questi c’è Alessandro, ventiseienne di San Marino, che sta affrontando un percorso di recupero per uscire da questa patologia. Anche lui ha dovuto fare i conti con il Coronavirus, sia direttamente – visto che è stato colpito da Covid-19 –, sia “indirettamente”, perché la quarantena è andata a interrompere il suo rientro in società. Alessandro, però, non ha vissuto questo tempo come un ostacolo, anzi: «In realtà ho scoperto che era un periodo di cui avevo proprio bisogno. Posso usare questo tempo per riflettere su me stesso, e questo mi darà qualche vantaggio in più quando tornerò a lavoro. Quello degli Hikikomori è un isolamento distruttivo, dove tagli i rapporti con chiunque, qualunque contatto; mentre questo è un isolamento costruttivo».

La sindrome da Hikikomori si riferisce a quelle persone che si ritirano dalla vita sociale per lunghi periodi

Per Alessandro, l’isolamento distruttivo è iniziato nel 2017: «Al tempo vivevo da solo, e diverse delusioni in amicizia mi hanno dato il colpo di grazia. Avevo deciso di rinchiudermi. Inizialmente andavo al lavoro, ma facevo fatica, ero spesso agitato, stavo perdendo il mio equilibrio interno. Quando uscivo con gli amici invece me ne stavo in disparte». Poi l’occasione per ripartire: «Quell’estate ho conosciuto una ragazza spagnola, e mi sono detto: perché non sfrutto questa conoscenza per farmi un’esperienza in Spagna? Ho quindi lasciato il lavoro e sono partito. Non la reputo una cattiva decisione, ma era il periodo sbagliato. Ero in isolamento, non stavo bene, e dopo un mese sono dovuto rientrare». Costretto a tornare a vivere dai genitori, senza un lavoro, Alessandro ha deciso di chiudersi in casa: «Anche solo andare in bagno al piano di sotto mi creava panico. Ho passato un intero anno della mia vita a giocare a Snake. Lo scopo delle mie giornate era quello di battere il record del gioco. Poi ho capito che avevo bisogno di aiuto. Ho iniziato la terapia psicologica, ho scoperto l’agopuntura e ora sono in cura da un analista. Nel luglio 2019 sono finalmente ritornato a lavorare».

Con tutte le complicazioni del caso Alessandro sta continuando il suo percorso terapeutico: «Io e il mio analista ci sentiamo telefonicamente. Non è come una seduta dal vivo, perché lo psicoanalista ti induce a pensare a qualcosa e ti fa percepire le sensazioni a livello fisico. Ora è diverso, ma almeno scambio due parole con qualcuno». Il lockdown ha infatti costretto molti centri terapeutici alla chiusura e alla riorganizzazione del lavoro da remoto. Come racconta la Dottoressa Valentina Di Liberto, sociologa e Presidente della onlus Hikikomori di Milano, «è stato un evento improvviso, non tutti sono riusciti ad adattarsi alla situazione. Una parte dei pazienti ha deciso di sospendere il trattamento perché preferisce il contatto faccia a faccia, ma ce ne sono alcuni che prediligono la terapia online».

Il lockdown ha costretto tutti in casa. Alcuni hanno interrotto le terapie, altri le hanno portate avanti online

Il rischio però è che a causa dell’isolamento forzato si annullino i progressi fatti finora: «Stiamo notando due fenomeni – spiega la dottoressa –. Da una parte ci sono pazienti che stanno reagendo bene, non si sono lasciati andare. Altri invece hanno avuto una regressione. Una delle componenti che poteva dare sostegno era l’idea di riprendere le attività fuori da casa, la scuola, vedere gli amici. Ritrovarsi in un mondo completamente bloccato, dove c’è una minaccia di un virus, ha fatto sì che si riaccendessero delle fobie, come quella del contagio».

Malgrado le difficoltà dovute al lockdown, il centro Hikikomori si è saputo attrezzare per non lasciare soli i propri ragazzi: «Abbiamo studiato interventi di gruppo usando le piattaforme online – racconta Di Liberto –, mentre per le terapie individuali stiamo tenendo quello che era il nostro trend precedente. Alcuni colleghi nel percorso inserivano attività fisiche e ora le mostrano attraverso il video, anche se non è la stessa cosa». La tecnologia, in questo periodo, ha risolto alcune problematiche, creandone però altre: «Con Skype c’è il filtro del computer – prosegue la dottoressa – e non hai la presenza fisica ed emotiva della persona. Per chi invece soffre di sindrome da Hikikomori acuta l’utilizzo di piattaforme online facilita una comunicazione iniziale che può essere molto pesante, perché rimettersi in contatto e parlare di ciò che ha causato sofferenza è un passaggio critico».

Questa patologia, riconosciuta in Giappone già dagli anni Ottanta, è un argomento che ha iniziato a preoccupare anche il nostro Paese nell’ultimo decennio. Le stime più attendibili parlano di circa 100mila casi in Italia e il numero è in aumento soprattutto tra le fasce d’età più basse: in origine, infatti, gli Hikikomori erano adolescenti e giovani adulti, ma ultimamente ci si sta rendendo conto che il problema sta statisticamente impattando nell’ambiente scolastico. Non solo, il fenomeno non sembra avere centri di espansione più accentuati di altri: «non ci sono zone in cui la sindrome è più diffusa – dice Di Liberto –, è trasversale rispetto alle grandi città e ai piccoli paesi. Si può sviluppare anche dove c’è un contesto ambientale tranquillo».

Le stime più attendibili parlano di circa 100mila casi in Italia. La platea potenziale potrebbe aumentare a causa dell’isolamento imposto dal lockdown

Adesso che il lockdown è finito, Alessandro può riprendere in mano la sua vita: «Ho scoperto di aver bisogno di questi periodi a casa. Quando l’anno scorso sono rientrato per la prima volta al lavoro è stato traumatico: relazionare era complicato e avevo un sacco di problemi fisici e di respirazione. Usando questo tempo per riflettere su me stesso magari avrò qualche vantaggio in più».

Nonostante ciò, il lockdown, oltre ad aver indotto alcuni pazienti a interrompere le terapie, ha allargato la platea di persone che, costrette in casa, potrebbero trasformare l’isolamento da forzato a volontario. Bambini e ragazzi hanno chiuso in anticipo l’anno scolastico, verosimilmente non frequenteranno i centri estivi e molti di loro dovranno rinunciare alle vacanze. Il rischio è quello di trovarsi a settembre e ottobre, quando molte attività che vedono i giovani coinvolti riprenderanno, con tanti casi in più: «Purtroppo – conclude la dottoressa Di Liberto – stiamo già assistendo a diverse famiglie che hanno contattato il centro allarmati del peggioramento improvviso di alcuni figli, anche di quelli che prima svolgevano una vita normale. Non essendoci la possibilità per i giovani di fare attività di aggregazione, alcuni potrebbero sviluppare forme di isolamento e ritiro sociale».

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