Il Libano, una terra contesa, da sempre coinvolta nelle dinamiche che hanno travolto il Medio Oriente, ma anche eternamente frammentata tra religioni ed etnie. La «terra dei cedri», stretta tra Siria e Israele, godeva di un sistema finanziario forte fino allo scoppio di una guerra civile che, tra il 1975 e il 1990, ha devastato il paese.
IL PUNTO DI VISTA GEOPOLITICO
La guerra civile libanese
Il cuore del conflitto va individuato nel contrasto tra i cristiani libanesi e la parte musulmana, composta dai profughi palestinesi e dai miliziani dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), espulsi dalla Giordania dopo la sconfitta nella guerra arabo-israeliana del 1967. Da una parte, i cristiani maroniti (guidati dal partito falangista di Pierre Gemayel) temevano di perdere la loro supremazia demografica e politica; dall’altra, i musulmani non si sentivano sufficientemente rappresentati. La guerra vide i cristiani avere la meglio fino all’intervento della Siria nel maggio 1976, e poi della Lega Araba in ottobre, che autorizzò l’azione della Forza Araba di Dissuasione (FAD) per ripristinare la pace nel paese.
La prima guerra libano-israeliana
Il Libano non è mai stato del tutto riconosciuto come uno stato a sé. Anche nel pieno degli scontri interni, infatti, i siriani colsero l’occasione per occupare il paese. Dopo due anni di coinvolgimento nei combattimenti decisero di realizzare il sogno storico della «Grande Siria». Scese in campo anche Israele, che instaurò una zona di sicurezza (fino al 2000 e poi di nuovo dal 2006 dopo la seconda guerra israelo-libanese) nella parte sud del paese. Per legittimare il proprio intervento, gli israeliani operarono tattiche di terrorismo, attraverso attentati (di cui non si assunsero mai la responsabilità) in cui persero la vita numerosi civili libanesi. Creato così il caos tra siriani e palestinesi, questi ultimi iniziarono ad ammassare le truppe lungo la frontiera con Israele. Nel 1982 lo stato ebraico invade ufficialmente il Libano, colpendo immediatamente Beirut e dando così inizio alla prima guerra israelo-libanese. Gli americani non rimasero indifferenti e ordinarono ai combattenti palestinesi guidati da Yasser Arafat di abbandonare il paese.
La risposta dell’ONU
Nonostante questo la guerra continuò e, in uno dei numerosi attentati, perse la vita anche il neo presidente del Libano Bashir Gemayel, figlio del fondatore del partito falangista, scatenando una serie di ritorsioni. Le milizie cristiane guidate da Elie Hobeika attaccarono i due campi profughi di Sabra e Shatila, uccidendo migliaia di profughi palestinesi.
Era arrivata l’ora di un decisivo intervento internazionale attraverso l’UNIFIL (United Nations Interim Force In Lebanon), una forza militare di pace costituita nel 1978 e rafforzata, per l’occasione, da truppe statunitensi, francesi e italiane.
Il terrorismo del partito sciita Hezbollah
Nel frattempo, entrò in gioco anche l’Iran che, con l’aiuto dei siriani, inviò i Pasdaran, una milizia khomeinista fondata dopo la rivoluzione del 1979, per addestrare la comunità islamica libanese. Nacque così il partito di corrente islamista Hezbollah («Partito di Dio»), oggi ancora operante in Libano. Nel 1983, la nuova formazione prese di mira le basi militari delle forze multinazionali con diversi attacchi, costringendole a ritirarsi l’anno successivo. Il centro di comando delle milizie si trovava nella parte meridionale del Libano, posizione strategica per colpire il nord di Israele. Il terrorismo proseguì con il rapimento e l’uccisione di alcuni leader e civili ebrei da parte degli islamisti radicali, in quanto si credeva che i libanesi israeliti fossero agenti nemici.
La «guerra di liberazione» del generale Aoun
Nel 1988 l’allora presidente del Libano Amin Gemayel incaricò il generale a capo delle forze armate libanesi, Michel Aoun, di creare un nuovo governo volto a riaffermare l’autorità statale libanese. Oltre all’esecutivo militare e cristiano di Aoun c’era però anche un altro governo, civile e musulmano, sostenuto dalla Siria. A guidarlo era Selim al-Hoss.
L’anno successivo, il generale prese di mira i siriani, protagonisti della sua «guerra di liberazione», cercando l’aiuto dell’Iraq per cacciarli dal Libano. In risposta, l’esercito siriano colpì la zona cristiana di Beirut, incluso il palazzo presidenziale, costringendo Aoun a cercare riparo nell’ambasciata francese e ad arrendersi nel settembre del 1989.
Il mese successivo i deputati libanesi si riunirono a Ta’if, in Arabia Saudita, per sottoscrivere un accordo per porre fine al conflitto e riconoscere la presenza siriana nel paese. Aoun non partecipò all’assemblea; anzi denunciò i partecipanti come traditori, protestando per il mancato ritiro delle truppe siriane. La guida del paese rimase ancora divisa fra due amministrazioni rivali fino a quando, nel 1990, l’esercito siriano occupò le roccaforti di Aoun ponendo fine alla guerra civile.
La Rivoluzione dei Cedri
Le forze siriane rimasero dunque in Libano, tornato ad uno stato di calma solo apparente. Nel 2005 una serie di manifestazioni si accesero in tutto il paese: la Rivoluzione dei Cedri, gli alberi tanto numerosi nel paese quanto lo furono le proteste. Il 14 febbraio la violenta esplosione di un’autobomba sconvolse la capitale, coinvolgendo la vettura dell’ex primo ministro Rafiq Hariri. I siriani vennero ritenuti responsabili, scatenando l’indignazione di migliaia di persone, per lo più giovani. Il partito sunnita di Hariri, «Movimento del Futuro», insieme alle falangi cristiano-maronite e ai drusi del «Partito Socialista Progressista», erano d’accordo sull’identità dei mandanti.
Tra filo-siriani e anti-siriani
Dopo due settimane il premier filo-siriano Omar Karami si dimise, portando una forte instabilità istituzionale. I manifestanti chiesero nuove elezioni per sostituire anche il presidente Émile Lahoud. Il presidente siriano Bashar Al Assad annunciò il ritiro delle truppe, anche a causa delle pressioni internazionali. Il Libano si trovò ancora una volta diviso tra due fazioni: una filo-siriana, guidata dai partiti sciiti di Amal, Hezbollah e minoranze laiche (appoggiati dal generale Michel Aoun, tornato dalla Francia), e una anti-siriana, guidata da Saad Hariri, figlio dell’ex premier assassinato. Entro l’aprile 2005 tutti i gruppi militari siriani si ritirarono. Le elezioni videro trionfare, come previsto, la coalizione anti-siriana, e Fouad Siniora divenne primo ministro.
La seconda guerra libano-israeliana
La pace era però ancora lontana. Il 12 luglio 2006, Hezbollah lanciò un attacco su villaggi israeliani, l’operazione «Promessa Fedele», propedeutico a uno scambio di ostaggi. Ma Israele riconobbe l’attacco come un atto di guerra di cui era responsabile anche il governo libanese. Dopo 34 giorni di conflitto, l’11 agosto 2006 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 1701, per aiutare Beirut a ripristinare la propria autorità e fermare la guerra. Essa prevedeva il disarmo di Hezbollah, il ritiro delle truppe israeliane dal Libano e il ritorno in forze dell’UNIFIL nel sud dello stato.
IL PUNTO DI VISTA MILITARE
Quando oggi sentiamo parlare del conflitto libanese dobbiamo concentrarci, oltre che sull’ormai quasi cinquantennale instabilità del paese, soprattutto sull’ultimo grande conflitto avvenuto all’ombra dei cedri. L’invasione israeliana del 2006, oltre ad aver devastato il paese levantino, ha avuto se non altro il merito di portare alla prima vera stabilizzazione dell’area dal 1975. La già citata Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite, rafforzando enormemente il dispositivo militare ONU di interposizione, ha contribuito a sedare gli scontri e le dispute confinarie tra Beirut e Gerusalemme.
L’invasione del 2006
Il Libano era tornato libero dalla presenza siriana da poco più di un anno quando, il 12 luglio 2006, Hezbollah lanciò l’ennesimo attacco contro le forze israeliane al di là del confine meridionale del paese. Era una tattica ormai nota e in uso da tempo: colpire postazioni militari delle Israeli Defence Forces (IDF) per tenere alta la tensione e tentare di catturare soldati avversari, che sarebbero poi stati scambiati con miliziani detenuti in Israele.
Quel 12 luglio, per Gerusalemme venne superato il limite. L’attacco avvenuto quel mattino, con il lancio di razzi non guidati contro postazioni e cittadine israeliane, era un diversivo. Una colonna di terra di Hezbollah attraversò la frontiera e attaccò un convoglio blindato delle IDF, uccidendo tre soldati e rapendone due.
La risposta non si fece attendere. Il governo di Israele decise di invadere il Libano. Secondo Gerusalemme, Beirut era da ritenersi responsabile: gli attacchi erano partiti dal suo territorio, e Hezbollah disponeva di ben due ministri all’interno dell’esecutivo libanese.
Come da prassi nella storia militare israeliana, la guerra durò poco. Appena 34 giorni. Il 14 agosto, in accordo con la Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite, le ostilità cessarono.
Piccoli scontri, grandi bombardamenti
Il confronto tra Hezbollah e le IDF è, all’apparenza, impari.
I miliziani sciiti disponevano, all’inizio del conflitto, di circa 1.000 uomini in servizio attivo, più altri 6-10.000 mobilitabili in tempi brevi. Niente veicoli, pressoché nessun pezzo di artiglieria. Una forza di guerriglieri operanti in piccoli nuclei, ideali per il CQB (Close Quarter Combat, il combattimento in spazi ristretti). La vera forza di Hezbollah risiedeva però (e risiede tuttora) nell’enorme numero di razzi e missili a sua disposizione. Armi anticarro portatili, come i sovietici AT-3 Sagger, sistemi a lungo raggio in grado di colpire Israele in profondità, come gli iraniani Fajr-5, oltre che i diffusissimi ordigni non guidati Katyusha-122. Un arsenale che contava, stando ad alcuni report, oltre 40.000 unità d’armamento all’inizio della guerra.
Le IDF, dal canto loro, sapevano di poter disporre della superiorità numerica assoluta: controllo dei cieli, del mare e reparti blindati e corazzati all’avanguardia a terra. L’aviazione israeliana ha effettuato un totale di 12.000 missioni, radendo al suolo 600 chilometri di strade, 73 ponti, l’aeroporto di Beirut, i porti della capitale e di Tiro, oltre che migliaia di edifici civili. Nonostante la minaccia delle armi controcarro di Hezbollah, l’esercito di Gerusalemme ha saputo usare al meglio i suoi tank Merkava, perdendone solamente cinque.
Stando ai report ufficiali, Hezbollah avrebbe perso oltre 500 miliziani, a fronte di 117 caduti israeliani. Sul fronte civile, in Libano si contarono un migliaio di morti, mentre in Israele furono solo 43.
UNIFIL: garantire la pace
Sin dal 1978, nella regione meridionale del Libano, è attiva una missione militare dell’ONU. Nata per assicurare una zona cuscinetto tra il confine israeliano e le milizie prima palestinesi e poi di Hezbollah, l’UNIFIL ha conosciuto due momenti di massima attività.
Del primo, tra 1982 e 1984, abbiamo già parlato nell’analisi geopolitica, mentre il secondo è proprio quello del 2006. La Risoluzione 1701, infatti, prevedeva che l’esercito libanese, insieme con le truppe ONU, riprendesse il totale controllo dell’area compresa tra il fiume Litani, a nord, e la «Linea Blu», ovvero il confine tra Libano e Israele stabilito internazionalmente nel 1949. Al momento dello scoppio delle ostilità, UNIFIL era ai minimi storici per fondi e forze. Ma con la risoluzione, il contingente assunse nuova vita, arrivando a contare oltre 15.000 persone, per lo più militari.
Da allora, passando anche attraverso momenti di tensione, la forza multinazionale opera per limitare le occasioni di scontro tra Israele ed Hezbollah, contribuendo alla ricostruzione post-bellica, alla bonifica da mine e ordigni inesplosi e all’addestramento dell’esercito locale.
Con il passare degli anni, la situazione è andata calmandosi, e l’organico della missione è diminuito. Al 19 gennaio 2023, UNIFIL è composta da 10.122 militari, provenienti da 48 paesi. I maggiori contributori, in termini di personale, sono Indonesia, Italia e Nepal.
Operazione Leonte: l’Italia in Libano
Il nostro paese ha un legame speciale con il Libano. Nel 1982 il coinvolgimento in UNIFIL fu la nostra prima grande esperienza militare internazionale dopo la seconda guerra mondiale. Quando, nel 2006, le Nazioni Unite richiesero un intervento massiccio, l’Italia fu subito in prima linea. Il 2 settembre i fanti di Marina della brigata «San Marco» furono tra i primi a sbarcare in Libano. Da quel momento, le nostre forze armate non hanno più lasciato il paese dei cedri.
L’esperienza maturata sin dagli anni ’80 nel contesto libanese ha consentito ai militari italiani di diventare un saldo punto di riferimento nelle operazioni dell’UNIFIL. Fornendo il secondo contingente più nutrito, l’Italia ha detenuto per un totale di 11 anni (2007-2010, 2012-2014, 2014-2016, 2018-2022) il comando dell’intera operazione ONU.
Attualmente, l’Esercito Italiano schiera in Libano 1162 soldati, provenienti dalla brigata meccanizzata «Aosta».
GLI SCENARI FUTURI
Nonostante la graduale riduzione di organico della missione UNIFIL segnali un progressivo ritorno alla normalità, il Libano è ancora un paese fortemente instabile.
Cinquant’anni di guerra hanno lasciato il segno, soprattutto dal punto di vista infrastrutturale. I bombardamenti del 2006 hanno solo aggravato le devastazioni precedenti, riparate alla meno peggio o del tutto dimenticate. Altri danni, con tutto il corollario di morti e feriti, sono arrivati anche da incidenti non bellici, come la grande esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020.
Anche lo spettro della guerra è tutt’altro che lontano. Sin dall’indomani della Risoluzione 1701, molti analisti hanno osservato che UNIFIL, con le sue restrittive regole d’ingaggio, non fosse una garanzia assoluta di stabilità. Hezbollah, dopo forti insistenze anche libanesi, non è stata disarmata, e Israele mantiene sulla «Linea Blu» una forte presenza armata. Anche all’inizio del 2023 la tensione resta alta. I militari di UNIFIL hanno di recente evitato l’ennesima scaramuccia, dopo che gli israeliani avevano sconfinato per alcuni lavori alla recinzione di frontiera. In seguito, l’esercito libanese ha provveduto a rimuovere il filo spinato disposto dai soldati di Gerusalemme.
Resta da capire per quanto ancora l’ONU manterrà il proprio impegno militare in Libano e cosa potrebbe accadere a seguito di un eventuale futuro ritiro.