Beirut, manifestanti chiedono che riparta l’inchiesta sull’esplosione del 2020

Dal 13 gennaio 2023 centinaia di persone hanno partecipato a una serie di manifestazioni a Beirut, in Libano. I cortei sono stati organizzati dai familiari delle vittime dell’esplosione che poco più di due anni fa devastò il porto della capitale. I dimostranti si sono riuniti nei pressi dell’Assemblea nazionale. Con le loro grida, hanno chiesto al governo la ripresa dei lavori dell’inchiesta sui responsabili del disastro che devastò il Paese.

I cortei nella capitale

Il sit-in dei manifestanti si è svolto in contemporanea con l’undicesima seduta parlamentare per l’elezione del Presidente della Repubblica in Parlamento. Alcuni parenti delle vittime hanno lanciato pietre contro il Palazzo di Giustizia di Beirut e hanno bruciato copertoni per strada. William Noun, fratello di un pompiere deceduto nell’incidente, ha confessato ai media locali di aver subito pressioni e intimidazioni dalla polizia. Addirittura, dopo un’intervista andata in onda in televisione, gli agenti hanno forzato la porta della sua abitazione. Noun è stato poi detenuto in carcere per l’intera nottata.

La protesta però non anima solamente i diretti interessati del disastro. Diversi deputati libanesi hanno aderito al moto di protesta popolare. In aula hanno sventolato immagini delle vittime dell’esplosione al porto di Beirut. E, in un secondo momento, si sono uniti ai manifestanti per le vie della capitale, esprimendo
solidarietà e appoggio totale alle loro richieste.

L’esplosione al porto di Beirut
Esplosioni al porto di Beirut

Poco dopo le 18 del 4 agosto 2020, i vigili del fuoco sono intervenuti per spegnere un incendio in un magazzino nel porto della capitale. Otto minuti più tardi, un’esplosione ha devastato l’impianto. Talmente imponente – di magnitudo 4.5 – da essere sentita a 200 chilometri di distanza.

Una nuvola di fumo, simile a un fungo atomico, si è alzata nel cielo di Beirut. 218 morti, oltre 7 mila feriti e 300 mila persone senza casa: numeri che hanno indotto il governo libanese a dichiarare lo stato di emergenza nella città per due settimane.

Il disastro è stato probabilmente causato da un carico da 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio. Questo apparteneva alla nave russa battente bandiera moldava MV Rhosus, partita dalla Georgia e diretta in Mozambico. Il carico avrebbe dovuto essere lavorato nel Paese destinatario per creare esplosivi commerciali.

Una vicenda poco chiara

Sulla vicenda del carico di nitrato di ammonio presente nel porto di Beirut c’è poca trasparenza. La versione più plausibile riguarda la mancanza di finanziamenti sufficienti per il normale funzionamento della nave. L’imbarcazione era già a corto di
denaro, tanto da non poter pagare il passaggio nel Canale di Suez. Il capitano intendeva sostare a Beirut per trasportare un carico supplementare e così guadagnare quanto necessario per garantirsi il passaggio.

Nel frattempo, le autorità portuali hanno ritenuto non idonea alla navigazione la nave stessa. Perciò, hanno deciso di bloccarla presso le loro banchine. Dei 9 membri della nave, 5 sono subito rimpatriati e 4 sono rimasti per un anno a bordo. Questo, a causa delle restrizioni sull’immigrazione previste dalla legislazione locale. Il proprietario della nave è finito in bancarotta e, di conseguenza, ha l’abbandonato l’imbarcazione. A questo punto, il tribunale libanese ha ordinato di scaricare il contenuto in un Hangar dove è rimasto fino al giorno dell’esplosione.

Lo stallo giudiziario
Il giudice Tarek Bitar

L’indagine condotta dalla giustizia nazionale è di fatto arenata da un anno e mezzo. Il giudice Tarek Bitar è continuamente ostacolato da diversi rappresentanti dell’establishment governativa. Questi ne rallentano l’operato con accuse di
pregiudizi politici e di politicizzazione dell’inchiesta. Al momento, Bitar ha arrestato 38 tra lavoratori e funzionari portuali, oltre ad alti rappresentanti istituzionali e della sicurezza libanese. A questo si aggiunge un mandato d’arresto in contumacia per Youssef Fenianos, ex ministro dei Trasporti e dei Lavori Pubblici.

«Non abbiamo problemi con i giudici o con il tribunale, ma con quelli che stanno provando a frenare l’investigazione. Le vittime dell’esplosione non sono solo numeri e il tribunale è luogo di giustizia», commenta il familiare di una vittima. I sopravvissuti e diverse organizzazioni internazionali si sono attivati per sbloccare lo stallo giudiziari. Questi hanno chiesto al Consiglio dei diritti umani dell’Onu di istituire «un’inchiesta internazionale indipendente e imparziale» per riuscire a far luce su una «tragedia di proporzioni storiche».

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