Secondo i dati dell’Ufficio statistica del Ministero dell’Istruzione, in Lombardia sono 2.400 i bambini che non vanno a scuola, ma studiano da casa. Prima della pandemia erano 776. Homeschooling è quando il contesto domestico si trasforma in luogo di apprendimento. L’idea di istruzione domiciliare emerse negli Stati Uniti tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, grazie a Raymond e Dorothy Moore, due insegnanti californiani. Cominciarono a documentare e pubblicare i risultati delle loro ricerche sull’ottimizzazione della formazione nei bambini a casa. L’esito fu sorprendente: per ottenere dei risultati ottimali dal punto di vista educativo e sociale, i bambini non sarebbero dovuti entrare nel sistema di istruzione formale prima dei dieci anni di età. In Gran Bretagna, negli ultimi sei anni, il numero dei ragazzi educati a casa è aumentato del 65%. Le famiglie che intraprendono questo percorso di istruzione alternativa seguono i figli, dai 6 ai 18 anni, direttamente o tramite insegnanti privati. Ogni anno gli studenti devono sostenere un esame di idoneità, conseguito nella scuola più vicino a casa, sotto la guida di un dirigente scolastico.
Una scuola senza ansia
Debora Governale è mamma di una bambina di 8 anni. Le condizioni di salute della piccola hanno spinto lei e suo marito a optare per un’istruzione parentale durante la pandemia. «Non volevamo mandarla in classe con altri bambini per ridurre i contatti e i rischi. Abbiamo seguito noi in toto la sua istruzione, senza affidarci a professionisti». Prima di compiere questa scelta si sono informati sulla tematica: «I bambini imparano più in fretta perché vengono seguiti personalmente, è un apprendimento personalizzato. Mia figlia ha potuto sperimentare, mettersi alla prova, senza l’ansia di dover raggiungere un obiettivo, pur seguendo le indicazioni ministeriali».
Prosegue sul tema del confronto con gli altri bambini: «In molti credono che i ragazzi senza scuola non sviluppino la giusta socialità, non è così. Si creano gruppi tra gli homeschoolar, per lo sport e lo studio stesso».
Soddisfatta dell’esperienza spiega che ha avuto la possibilità di comprendere atteggiamenti, inclinazioni e comportamenti della figlia che nella scuola tradizionale non emergono.
L’apprendimento informale che stimola il problem solving
Nunzia Vezzola, insegnante di in un liceo milanese, è una mamma homeschoolar. «I miei figli una volta volevano accendere un fuoco senza usare l’accendino, hanno discusso, pensato e alla fine ci sono riusciti. Era solo una scintilla. Questo significa apprendimento naturale e sviluppo delle skills di problem solving». I figli di Nunzia hanno seguito il percorso di istruzione parentale dalle elementari fino alla maturità: «Quando hanno deciso di conseguire il diploma hanno studiato un anno e mezzo. Parlano quattro lingue, hanno viaggiato e per un po’ di tempo hanno frequentato un gruppo di ragazzi stranieri». Se le viene chiesto dei rischi legati alla mancanza di confronti con i coetanei a scuola, risponde che molto spesso gli istituti scolastici sono teatro di atti di bullismo. «Io faccio l’insegnante, parlo con i miei alunni. Il bullismo è la piaga della scuola. Poi, per quanto riguarda il socializzare, come si fa se bisogna stare seduti sei ore? I dieci minuti di ricreazione non bastano. Ci sono altri modi per incontrare persone».
L’obiezione è che non tutte le famiglie hanno la possibilità di perseguire questa strada: «Io credo nella scuola, ma per scelta personale ho voluto vivere così la genitorialità. Bisogna sottolineare che ogni nucleo familiare è diverso, sia per disponibilità economiche che per tempo a disposizione. Non tutti possono o vogliono vivere questa esperienza».
Il parere dell’esperta
La psicologa e docente dell’Università Cattolica di Milano, Angela Gammarano, specializzata in psicoterapia dell’età evolutiva, ha spiegato come l’homescchooling possa causare problematiche per la crescita e l’apprendimento di bambini e adolescenti. La conoscenza, infatti, è un processo di costruzione sociale, che nasce nell’interazione con gli altri. Dunque, nell’istruzione parentale, la coincidenza di ruolo tra genitore e insegnante, l’asimmetria del rapporto educativo tra adulto e bambino o ragazzo e la mancanza di confronto non permettono un completo sviluppo psicofisico del soggetto.
Quali ricadute ci possono essere sulla socializzazione, dato che il bambino/a non frequenta la scuola? La scuola rappresenta un’esperienza di separazione quotidiana dalla propria famiglia con un conseguente ruolo importante nel processo di costruzione dei rapporti e delle rappresentazioni sociali. Il gruppo classe è una “palestra”, dove vi è l’opportunità di condividere con i compagni scambi comunicativi e momenti di gioco, che favorisce la creazione del senso del gruppo e di legami amicali. Tutti questi aspetti di potenzialità sociali sono certamente presenti anche in altri gruppi e situazioni di confronto, ma la peculiarità del sistema scolastico con le sue regole di confronto e apprendimento fanno della scuola la seconda agenzia fondamentale di socializzazione.
L’istruzione parentale può proteggere da situazioni inospitali, per esempio il bullismo? Certo, il processo della socializzazione non è sempre lineare e positivo e il bambino o ragazzo si “allena” anche ad affrontare frustrazione, insuccessi e situazioni conflittuali entro i contesti relazionali. Limitare le relazioni o pensare di poter “pianificare” un contesto sociale privo di conflitti o frustrazioni, piuttosto che elemento protettivo, diventerebbe un possibile fattore di rischio per i ragazzi, impendendo loro di attivare quelle necessarie competenze e capacità di resilienza che risultano necessarie in ogni processo di sviluppo.