“MANSPLAINING”: COSA SUCCEDE QUANDO GLI UOMINI “SPIEGANO COSE” ALLE DONNE?

Il termine indica l’atteggiamento paternalistico che assumono alcuni uomini nei confronti delle donne, fornendo un chiarimento superfluo data l’elevata preparazione, in un certo ambito, dell’interlocutrice. Dalle ricerche psicologiche fino ai pareri di linguisti e giornalisti, il fenomeno delle “spiegazioni maschili”… spiegato

È tarda notte ma l’aria è ancora rovente vicino ad Aspen, in Colorado, nell’estate del 2003. La scrittrice Rebecca Solint sta per andare via da una festa quando il proprietario di casa la ferma per fare due chiacchiere. L’uomo le chiede a cosa stia lavorando in quel periodo, così lei gli risponde citando la sua ultima opera su Eadweard Muybridge. Lui la interrompe subito: “Ma lo sa che quest’anno è uscito un libro molto importante su Muybridge?”.
Ecco, si riferiva proprio al testo che aveva scritto Rebecca Solint, la donna con cui stava parlando, ma a cui pretendeva di spiegare qualcosa di cui lei ne sapeva molto di più. In sintesi: era stata vittima di mansplaining (“man” – uomo + “explain” – spiegare).
Passeranno anni prima che la stessa Solint racconti questo aneddoto in un articolo pubblicato sul Los Angeles Time (il 13 aprile 2008). La parola “mansplaining” appare il 21 aprile dello stesso anno in un gruppo di discussione online e come scrive Rebecca Solint nel suo libro “Gli uomini mi spiegano le cose”: «In verità, io non c’entro niente con la creazione del termine, anche se a quanto pare a ispirarlo è stato il mio saggio, insieme a tutti gli uomini che ne incarnano il concetto». Il New York Times, nel 2010, inserisce il termine tra le parole dell’anno. Negli stessi anni viene creata anche una pagina web su Tumblr in cui centinaia di donne del mondo universitario (ma non solo) raccontavano episodi in cui non venivano ascoltate ma interrotte o trattate con sufficienza.

Rebecca Solint
Ricadute psicologiche del fenomeno

Il mansplaining nasce molto prima, magari già dai tempi di Adamo e Eva, forse proprio mentre lui le spiegava i motivi per cui sarebbe stato meglio non mangiare quella maledetta mela. L’introduzione del termine ha solo permesso di focalizzare e identificare questa consuetudine. Il passo successivo lo ha fatto la ricercatrice statunitense Caitlin Briggs. Lei e i suoi colleghi hanno chiesto a 128 volontari di immaginare di essere membri di un comitato incaricato di assegnare fondi bonus ai dipendenti meritevoli. Dopo aver esaminato la descrizione dei candidati selezionati, i volontari dovevano recarsi a un incontro con due attori, un uomo e una donna. Durante l’incontro veniva chiesto ai volontari se avessero compreso la natura del compito che dovevano svolgere e poi procedevano a ri-spiegarglielo. Dalla ricerca, pubblicata sul Journal of Business and Psychology, è emerso che quando la spiegazione veniva fatta dall’uomo alle donne, queste ultime reagivano negativamente: “Percepivano che la loro competenza fosse messa in discussione, mentre quella dei volontari maschi no, e attribuivano il comportamento a un pregiudizio di genere. Avevano la sensazione che chi gli era di fronte non avesse stima e fiducia in loro” osserva Briggs.
Nel caso contrario, quando era una donna a spiegare il compito con toni paternalistici agli uomini, i volontari non avvertivano il comportamento come svilente.
Le riprese video dell’esperimento, inoltre, mostrano come le donne dopo aver ricevuto mansplaining tendevano a parlare molto meno, mentre le interazioni degli uomini vittime della stessa pratica non subivano variazioni.

Un bel grafico pubblicato dalla Bbc nel 2018, diventato poi virale, aiuta gli uomini a evitare di commettere mansplaining. È Kim Goodwin l’autrice dell’infografica, realizzata dopo le sollecitazioni dei suoi colleghi che le chiedevano linee guida per evitare di inciampare nelle spiegazioni non richieste. Come mostrato dalle ricercatrici della Carleton University di Ottawa, Linda Schweitzer, Chelsie J. Smith e Katarina Lauch, è proprio sul posto di lavoro che si verificano più casi di mansplaining. Nell’indagine che hanno realizzato, sono presenti interviste a 499 adulti statunitensi e canadesi a cui era stato chiesto se avessero mai sperimentato mansplaining nella loro esperienza lavorativa. Così hanno scoperto che quasi ogni persona ne era stata vittima nell’ultimo anno. I risultati suggeriscono come ciò portasse verso una minore soddisfazione sul lavoro, intenzione di licenziarsi, esaurimento emotivo e disagio psicologico. Le ricercatrici hanno poi analizzato un database di tweet che includevano la parola associata a termini relativi al lavoro. Ne hanno tirato fuori una definizione precisa: “Qualcuno (di solito un uomo) che fornisce una spiegazione non richiesta – o sgradita – con toni condiscendenti a qualcun altro (tendenzialmente una donna) mettendo in dubbio la sua conoscenza o presupponendone una mancanza, indipendentemente dalla veridicità della spiegazione”.

Casi eclatanti di mansplaining

Ma il mansplaining non appartiene solo al Pianeta Terra. Era il 2016 quando Jessica Meir, astronauta statunitense, pubblicò su Twitter un video girato durante una simulazione delle condizioni spazio scrivendo: “Per la prima volta sono andata a più di 19mila metri di altezza, la zona equivalente allo spazio, dove l’acqua bolle spontaneamente! Fortunatamente ho la tuta!”. Un uomo, un certo Casey O’Quin, aveva commentato così: “Non direi che è spontaneo. La pressione nella stanza è scesa sotto la soglia della pressione di vapore dell’acqua a temperatura ambiente. Semplice termodinamica”. O’Quinn dopo aver ricevuto una valanga di critiche per aver spiegato a un’astronauta la termodinamica chiuse il profilo, ma il suo chiarimento non stava né in cielo né in terra.
Sempre su Twitter, questa volta nel 2019, la storia del mansplaining si intreccia con l’anatomia femminile. Un signore, chiamato Paul Ballen, commentò un articolo del Guardian che riguardava un progetto della fotografa Laura Dodsworth il cui obiettivo era far superare la vergogna sulla propria vulva attraverso 100 scatti. L’uomo sosteneva che non si trattasse di “vulve” e che la parola corretta da usare fosse “vagina”. Continuò a credere di avere ragione nonostante la ginecologa Jennifer Gunter confermasse che erano proprio “vulve”. Iniziò una discussione tra i due e Ballen arrivò a scrivere un documento (ancora rintracciabile su Google) intitolato “The correct word is Vagina”.
A proposito di parole giuste o sbagliate, anche la sociolinguista Vera Gheno è stata vittima di mansplaining. L’episodio, raccontato nel libro Potere alle parole, ha come protagonista un signore di una certa età che a margine di una conferenza si indignava con la sociolinguista per la straordinaria ignoranza di intellettuali e giornalisti che continuano a usare il modo di dire “piantare in asso” invece che “piantare in Nasso”. Gheno gli fece presente che il riferimento all’episodio della mitologia si era perso nel tempo e che la maggior parte degli etimologici riportava il modo di dire all’asso delle carte e non all’isola, quella di Nasso, dove Arianna abbandonò Teseo. A fine risposta l’uomo si alzò e se ne andò.

«In italiano si potrebbe dire che ho subito “maschiarimento”, un’alternativa sarebbe “minchiarimento” ma ha come limite il fatto che sia un termine un po’ volgare – racconta Vera Gheno – volgare come l’atto, sia chiaro. L’inglese ha il vantaggio che può creare facilmente parole macedonia, a differenza della nostra lingua».

La sociolinguista aggiunge che la pratica del mansplaining si lega strettamente con il tema più generale di quella che la professoressa Claudia Bianchi definisce ingiustizia discorsiva: «Oggi non si pensa alla donna come un essere inferiore biologicamente o legalmente. Rimane però il retaggio storico per cui ci siano all’interno della società soggetti che non sono produttivi di conoscenza. Le donne hanno subito a lungo questa discriminazione» conclude Gheno.

La traduzione letterale del termine è “uomo spiegante” ma per il linguista Andrea de Benedetti questo è il caso in cui è meglio adottare l’anglismo:

«”Mansplaining” è un termine che è stato concettualizzato in una cultura diversa dalla nostra, adottandolo non solo importiamo l’idea che c’è dietro ma anche la parola usata per definirla. Poi se prende piede e viene usata nella nostra lingua è perché descrive un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti e che era necessario venisse specificato».

Resta sempre valida la massima di Orazio “est modus in rebus”, c’è una misura nelle cose ed è meglio non abusare di questo vocabolo. «Io stesso sono stato accusato di aver fatto mansplaining per aver scritto il libro “Così non schwa”, dove per schwa si intende il simbolo con la “e” rovesciata per rendere il linguaggio più inclusivo – aggiunge De Bendetti – Certe etichette vanno maneggiate con estrema cautela. Ho trattato una questione che includeva anche le donne ma dal punto di vista di un linguista, è stato eccessivo definirmi un “mansplainer”».

Cosa si annida dietro questa pratica?

Per Giulia Blasi, scrittrice e giornalista, è molto difficile difendersi o riconoscere l’atteggiamento paternalistico sul posto di lavoro: «Non è solo questione del rapporto uomo – donna, si tratta di una dinamica relazionale di potere – commenta – chi lo fa non vuole arricchire qualcuno con un’informazione ma punta a consolidare la propria mascolinità. Cerca di far passare il messaggio che in quanto donna tu non sia autorevole o professionale, così ripete quello che hai detto con le tue stesse parole o te lo rispiega». Questi meccanismi sono, però, spesso inconsci. Giulia Blasi chiarisce come le donne siano indotte dalla società a essere gentili e accondiscendenti, al contrario degli uomini, per questo per le prime è difficile reagire e per i secondi accorgersi del loro atteggiamento. E per lo stesso motivo il “womensplaining” è molto raro che si verifichi.

A volte sarebbe meglio tacere

Che il mansplaining abbia a che fare con la discriminazione, incida sulla produttività nel lavoro o sia qualcosa che esiste da sempre ma a cui mancava un appellativo, una delle possibili soluzioni per arginare il fenomeno già esisterebbe. Nel momento in cui si parla con qualcuno bisognerebbe ricordarsi dei 10 punti del Manifesto della Comunicazione Non Ostile. Come il punto 4: “Nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura”. Un altro aiuto potrebbe venire dal proverbio: “Parla poco e ascolta assai e giammai fallirai”. In questo caso: “Spiega poco, informati “assai” sulle qualifiche e le conoscenze della donna a cui ti rivolgi e giammai sarai accusato di fare mansplaining”.

Eleonora di Nonno

Classe '99, pugliese ma abito il momento. Divoratrice di libri e inguaribile ficcanaso. Per descrivermi ecco le rime di Caparezza: "L'inchiostro scorre al posto del sangue; Basta una penna e rido come fa un clown; A volte la felicità costa meno di un pound".

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