Da semplice suggestione a vera e propria ossessione. La “Tripla Corona” del motorsport, quel premio non ufficiale che viene riconosciuto a chi vince in carriera il Gran Premio di Montecarlo di Formula Uno, la 500 miglia di Indianapolis nell’Indycar e la 24 ore di Le Mans, è diventata l’obiettivo principale della carriera di Fernando Alonso. All’asturiano manca soltanto un successo sull’ovale americano per completare quel trittico di vittorie che soltanto un pilota può vantare nella sua bacheca: Graham Hill. Il britannico ha vinto cinque volte il Gran Premio di Montecarlo e, per non farsi mancare nulla, ha anche conquistato due mondiali di Formula Uno, creando una variante ancora più difficile della Corona. Hill ha anche festeggiato una volta a testa a Indy e nella classica francese dell’endurance.
Pochissimi i piloti in attività che detengono due delle tre prove: soltanto il colombiano Juan Pablo Montoya e Alonso, appunto. Montoya ha vinto due volte Indianapolis e una il GP di Monaco, ma non ha mai avuto l’occasione di competere al massimo livello nella 24 ore di Le Mans. Fernando, invece, ha trionfato a Montecarlo nel 2006 e nel 2007, conquistando anche due titoli iridati in F1. La scelta di spostare la sua attenzione sull’endurance, disputando una stagione intera nel mondiale riservato alle gare di durata nel 2018, lo ha portato a vincere sul traguardo di Le Mans a bordo di una Toyota, divisa con gli ex colleghi della massima serie Sébastien Buemi e Kazuki Nakajima. Considerando i valori in campo, è probabile che Alonso possa ripetersi quest’anno.
Girare in tondo a 360 all’ora
Cosa porta tanti ex piloti di Formula Uno a sfidare la forza centrifuga e la fatica sull’ovale di Indianapolis? Forse il fascino della velocità pura. Nella massima serie ci sono circuiti, come Monza o Città del Messico, dove si raggiungono punte massime al di sopra dei 350 chilometri orari. Ma due ore passate percorrendo quattro curve nella stessa direzione, mantenendo una velocità media superiore ai 360 all’ora, sono tutt’altra cosa. Lì ogni minima imprecisione, ogni millesimo di secondo conta. Due centimetri troppo all’interno e si finisce a muro. Un sorpasso troppo azzardato e si termina la propria corsa sulle barriere, dopo uno schianto superiore ai 100 G. Lo spettro di fratture gravi, o peggio, è ben presente nella mente di tutti.
Ma se andiamo a vedere l’elenco degli iscritti del 2019, troviamo ben sei piloti con esperienza in Formula Uno: significa che il fascino della “Victory Lane”, con tanto di bottiglia di latte freddo celebrativo, colpisce anche fuori dagli Stati Uniti.
Il fascino indiscusso della gara di durata
Si dice che il motorsport sia una disciplina individuale: alla fine, il tuo compagno di squadra è il tuo primo avversario. Questo non è vero nelle gare di durata, dove a condividere l’auto sono due o più piloti che competono per una vittoria comune. Avere una buona affinità con i tuoi compagni di equipaggio è indispensabile: non si può favorirne uno a scapito di un altro a livello di setup e regolazioni del veicolo. Guardare un altro pilota che guida la tua auto, sapere che qualsiasi cosa succeda non si ha il controllo della situazione e non ci si può fare nulla, è una delle cose più difficili per chi non è abituato a questo modo di concepire l’automobilismo. Che diventa uno sport di squadra.
Questo fascino, unito alla sfida contro la fatica e i limiti del corpo umano, sottoposto a sforzo per due interi giri di orologio, è quello che ha portato un campione come Fernando Alonso a cimentarsi nella storica sfida francese, nata nel 1923. Guardando agli anni recenti, decine di piloti di Formula Uno hanno provato l’avventura nella più classica delle gare di durata. Ricordiamo per esempio Mark Webber, Jenson Button, Rubens Barrichello e Nico Hulkenberg, che nel 2015 l’ha vinta mentre disputava in contemporanea il mondiale della massima serie.
Il fallimento di Indy
Fernando Alonso sperava di avere la sua prima occasione di completare la “Triple Crown” domenica 26 maggio, alla 103esima edizione della 500 miglia di Indianapolis. La sua prima esperienza sull’ovale di Indy, nel 2017, si era conclusa a 21 giri dalla fine per una rottura del motore, dopo una gara disputata tra i protagonisti. Quest’anno McLaren, ultima squadra della sua carriera in Formula Uno, ha deciso di supportarlo di nuovo, appoggiandosi alla struttura inglese Carlin. A bordo di una monoposto costruita in Italia da Dallara e motorizzata Chevrolet (contrariamente al 2017, quando il motore che lo tradì era della giapponese Honda), Alonso ha faticato durante tutto il lungo percorso di avvicinamento alla gara, a partire dalle sessioni di prove libere disputate su diversi giorni. La griglia di partenza di Indianapolis accoglie tassativamente 33 auto, ma gli iscritti erano 36, perciò era necessario un taglio. Così, le qualifiche hanno decretato che per il pilota asturiano sarebbe stato necessario ricorrere al cosiddetto “Bump Day”, una sorta di giorno del giudizio dove sarebbe caduta la tagliola sui tre piloti non abbastanza veloci per entrare in griglia. Fernando aveva messo a segno un tempo che sembrava sufficiente per partecipare alla gara, ma l’ultimo pilota a tentare la qualificazione, il 23enne americano Kyle Kaiser, che arrivava al momento decisivo senza giri di prova per aver distrutto la macchina nelle libere, ha clamorosamente battuto il tempo di Alonso per 12 millesimi di secondo, eliminandolo dalla competizione. Non è un caso che le tre auto tagliate dalla corsa siano tutte gestite da Carlin: oltre al due volte campione di Formula Uno, sono rimasti fuori dalla gara il debuttante messicano Patricio O’Ward e l’inglese Max Chilton. Solo una vettura della squadra inglese si è qualificata, quella affidata a Charlie Kimball.
Alonso, che molti davano tra i possibili favoriti, ha dovuto guardare la 500 miglia da casa: all’asturiano toccherà attendere un altro anno per provare a completare la “Tripla Corona”. Per la cronaca, nello stesso giorno in cui Lewis Hamilton ha vinto il suo terzo Gran Premio di Montecarlo, il francese Simon Pagenaud, campione Indycar nel 2016, ha conquistato il suo primo successo sull’ovale dell’Indiana, precedendo sul traguardo i già vincitori della corsa Alexander Rossi e Takuma Sato. Il transalpino vanta nel suo curriculum anche diverse partecipazioni alla 24 ore di Le Mans a bordo di un prototipo Peugeot, con una seconda posizione a soli 13 secondi dai primi come miglior risultato nel 2011.
Un futuro incerto
Le voci sul futuro sportivo di Fernando si susseguono: la Toyota ha annunciato che lo sostituirà con il neozelandese Brendon Hartley per la stagione 2019-2020 del Mondiale Endurance. Tornare in Formula Uno pare un’opzione azzardata, per quanto ci siano voci che lo vogliano pronto a saltare di nuovo su una monoposto. Una stagione completa in Indycar, per arrivare preparato al meglio all’evento clou della stagione sull’ovale più famoso del mondo, non è da escludere, nonostante non se ne sia mai parlato. Ben altra sfida sarebbe invece per lo spagnolo partecipare alla Dakar, classica del rally raid che nel 2020 si sposterà dal Sud America all’Arabia Saudita. Alonso ha effettuato dei test con una Toyota Hilux, auto campione in carica grazie all’emiro del Qatar Nasser Al-Attiyah. Seguito dal due volte vincitore della gara Giniel de Villiers, pilota ufficiale della casa nipponica, l’asturiano ha effettuato due giorni di prove nel deserto sudafricano in vista di una possibile esperienza nell’immediato futuro. Sono spuntate notizie ancora più fantasiose, come quella secondo cui Fernando starebbe creando una squadra professionistica di ciclismo per affrontare la Vuelta a España con lui stesso come partecipante.
Insomma, Fernando si sta affermando sempre più come una figura poliedrica nel mondo del motorsport, un pilota d’altri tempi a cui non basta essere entrato nell’albo d’oro della Formula Uno e venir considerato uno dei più grandi dell’era post-Michael Schumacher. Alonso vuole di più, un riconoscimento talmente esclusivo che solo un altro pilota è riuscito a ottenere in carriera. E non c’è dubbio che non si fermerà finché non l’avrà raggiunto.