I 50 anni attesi dai Chiefs, il fenomeno Mahomes e i numeri del Superbowl

Terzo e 15 yard. Sette minuti e 12 secondi alla fine della partita. Quarto quarto. San Francisco 49ers 20, Kansas City Chiefs 10. Per la banda del coach 61enne Andy Reid è una sorta di ultima chance. Il down va convertito e poi serve mettere subito punti a referto prima che sia tardi. Troppi anni son passati dall’ultimo Superbowl giocato e vinto dai Chiefs. Era il 1970 quando la squadra del Missouri sconfisse i Washington Redskins 23-7. I genitori di Patrick Mahomes allora erano dei ragazzini.

Patrick Lavon Mahomes II, classe 1995. Decima scelta assoluta al Draft 2017. I Chicago Bears gli preferirono Mitchell Trubinsky

Ora loro figlio è il quarterback dei Kansas City Chiefs, ha 24 anni, è il giovanissimo Mvp della scorsa stagione. Finora ha un po’ sofferto la partita: il primo drive in assoluto non lo conclude (“quick three-and-out”), poi perde altri due possessi facendosi intercettare due volte. Nel mezzo un touchdown su corsa, quello del momentaneo 7-3 per i suoi: ma è poco, ci si aspetta molto di più.

Ma come i grandi dello sport, Mahomes riesce a risolvere una partita complicata con una singola giocata. Kansas City deve percorrere obbligatoriamente 15 yarde. Sono tante ma è l’unico modo per restare in partita. La tensione sale visto che siamo al terzo tentativo. Son quelle azioni dove è molto facile sbagliare e si rischia di compromettere la partita. Se non riescono nell’obiettivo infatti, i Chiefs restituiranno la palla ai 49ers.

Mahomes riceve lo snap e indietreggia nella tasca. Del resto l’aggressiva defensive line di San Francisco sta già puntando il QB di origine texana con l’obiettivo di buttarlo giù. Arretra molto Mahomes, cerca di prendere tempo e non vuole essere steso dai difensori avversari. I secondi passano, il Defensive Tackle dei 49ers Deforest Buckner ha eluso la marcatura del suo avversario di linea e lo ha praticamente raggiunto: sta per placcarlo dal lato cieco. Mahomes fa volare il pallone in cielo, lo sferoide prolato sta in aria istanti interminabili e poi si accomoda fra le mani del ricevitore Tyrek Hill: 44 yards di lancio, down convertito. Kansas City sopravvive e di lì a poco segnerà il touchdown del 20-17 con un passaggio sempre di Patrick Mahomes ma stavolta raccolto dal tight end Travis Kelce.

È partita la rimonta. In soli 4 minuti e 57 secondi Kansas City e il suo QB confezionano il Superbowl con i due touchdown del runningback Damien Williams portandosi sul 31-20 finale. I Chiefs salgono sul tetto del mondo e Patrick Mahomes diventa il più giovane giocatore di sempre ad aver vinto un Mvp della stagione regolare e aver sollevato il Lombardi Trophy. È nata una nuova stella in Nfl.

Superbowl, fenomeno sociale

Dell’importanza della partita, regole dello sport e le cifre economiche da capogiro che muove la National Football League ne avevamo già parlato un anno fa, ma il trend anche quest’anno non è cambiato. Un terzo degli americani, 100 milioni su 330 milioni, ieri hanno visto la partita. Chi allo stadio – pagando biglietti da 5mila dollari fino a 70mila – chi in televisione, consumando miliardi di alette di pollo, milioni di popcorn e galloni birra. In media un americano spende quasi 89 dollari il giorno del Superbowl: l’80% in cibo, il resto in merchandising e suppellettili vari. Il totale della spesa dei cittadini statunitensi il giorno del «Big Game» è di 17,2 miliardi di dollari.

Le due squadre schierate sulle linee delle 24 yard in omaggio a Kobe Bryant, prima del kickoff.
Gli spot

La Nfl ha distribuito complessivamente nell’anno fiscale concluso a marzo 2019 circa 9 miliardi di dollari: 274 milioni per ciascuna delle 32 squadre della lega. L’accordo per i diritti tv vale complessivamente 5 miliardi di dollari all’anno. Quest’anno è stata la Fox a trasmettere la partita. Gli spot pubblicitari da 30 secondi da inserire durante il match erano stati già venduti a novembre al costo di 5,6 milioni di dollari l’uno. Il presidente Donald Trump ne ha comprati due per fare campagna elettorale in vista delle presidenziali 2020. Così ha fatto anche Michael Bloomberg con uno spot contro le armi. Facebook ha fatto il suo esordio al Superbowl mentre Coca-Cola ha fatto dirigere il suo spot a Martin Scorsese. Ellen Degeneres è stata la testimonial per Amazon, Bill Murray per la Jeep, Chris Evans per Hyundai e Bryan Cranston per la bibita Mountain Dew, con un omaggio a Shining di Stanley Kubrick.

La gaffe di Trump. Kansas City in realtà si trova in Missouri, il tweet è stato poi corretto
Shakira e Jennifer Lopez
Il Pepsi Halftime Show

Lo spettacolo nello spettacolo del Superbowl: l’Halftime Show. Quest’anno a salire sul palco durante l’intervallo sono state Shakira e Jennifer Lopez. Due artiste musicali “latine” e legate quindi alla cultura della città di Miami, che ha ospitato la partita. Mentre Demi Lovato ha cantato l’inno americano prima del kickoff, le due dive musicali hanno infiammato il pubblico dell’Hard Rock Stadium per circa 20 minuti. A detta di molti una delle migliori performance musicali della storia del Superbowl, nonostante la “concorrenza” negli anni di mostri sacri della musica: Michael Jackson, Bruce Springsteen, Rolling Stones e Madonna solo per citarne alcuni.

Football, metafora della storia a stelle e strisce

Il football è lo sport americano per eccellenza. Una metafora della storia statunitense. C’è tutto quello per cui gli americani vanno pazzi: in particolare, la conquista violenta del territorio nemico. La prima domenica di febbraio è ormai diventato il quarto giorno di festa nazionale dopo il Natale, il Giorno del Ringraziamento e il 4 luglio. Un giornata da vivere in famiglia o con gli amici. In una parola: Superbowl. Una partita che blocca completamente un paese gigantesco come gli Stati Uniti. Un evento che più americano di così non si può, uno show che puntualmente ogni anno sale alla ribalta in questo periodo anche in paesi che non sanno niente di questo sport. Sarà che gli americani son bravi a vendere la loro cultura. Noi ci limitiamo ad osservare a distanza, e intanto studiamo come vanno le cose dall’altra parte dell’Atlantico.

Niccolò Bellugi

Senese, laureato in Scienze Politiche. Da toscano capita che aspiri qualche consonante, ma sulla "c" ci tengo particolarmente: Niccolò, non Nicolò. La mia è una sfida: mascherare il mio dialetto originario per poter lavorare in televisione o radio. Magari parlando di Sport. Ma tutto sommato va bene anche un giornale, lì non ho cadenze di cui preoccuparmi.

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