Duomo di Milano, 26 maggio 1805. Napoleone Bonaparte si poggia sul capo la Corona Ferrea e pronuncia la celebre frase «Dio me l’ha data, guai a chi la tocca». Viene incoronato Re del Regno d’Italia: il capoluogo lombardo ne è la capitale. Ebbene, basterebbero queste brevi righe a evidenziare il legame indissolubile, palpabile anche a 200 anni dalla morte dell’Imperatore, creatosi con la città.
Ma c’è di più. Conoscerete tutti la Pinacoteca di Brera, l’Arco della Pace in corso Sempione, l’Università Statale o il Palazzo Reale. Ognuno di questi luoghi, insieme a tanti altri, è connesso a Napoleone. Bonaparte, infatti, si innamora perdutamente di Milano. Ha un colpo di fulmine sin da quando, ancora generale, entra per la prima volta in città il 15 maggio 1796 a capo dell’Armata d’Italia. È così che prova a farne una succursale di Parigi.
Nel nome di Napoleone
Milano, durante il periodo napoleonico, è oggetto di un grande ripensamento artistico e architettonico di cui, ancora oggi, è possibile scovare i segni. Partiamo allora dalle tracce più evidenti (è il nome stesso a suggerirlo) come via Monte Napoleone. Nota per essere la strada più cara d’Europa, è sotto i francesi che la via principe del Quadrilatero della Moda, nata come contrada di Sant’Andrea e divenuta dopo contrada del Monte di Santa Teresa, muta il proprio nome in contrada del Monte Napoleone. Tuttavia, si deve attendere l’unità d’Italia per l’affermazione definitiva dell’attuale denominazione: il nominativo della via, con la Restaurazione, è infatti accorciato in contrada del Monte.
Se dal nome, Napoleone, passiamo invece al cognome, Bonaparte, ecco giungere l’ora del Foro Buonaparte. Avete capito bene. Non si tratta di un errore, ma del cognome originario (di provenienza fiorentina) dell’Imperatore dei francesi; che nel 1801 commissionano la realizzazione del Foro, il nuovo centro politico della città, all’architetto Giovanni Antonio Antolini. Il primo progetto prevede la costruzione di una grande piazza circolare, circondata da sfarzosi edifici neoclassici, con al centro un imponente colonnato dorico. L’intero complesso, infine, avrebbe dovuto essere collegato alla Cerchia dei Navigli: nulla di tutto ciò viene però realizzato. Del piano, ritenuto eccessivamente oneroso, rimane oggi un semi-anello stradale innanzi al Castello Sforzesco.
A essere ultimato, anche se sotto la successiva dominazione austriaca, è invece l’Arco della Pace in corso Sempione. L’arco trionfale neoclassico, in lombardo Arch del Sempion, viene inaugurato nel 1838 alla presenza dell’Imperatore Ferdinando I d’Austria. Concepito per festeggiare la vittoria francese nella battaglia di Jena (si chiamava infatti Arco della Vittoria), è poi dedicato alla pace tra le nazioni europee ottenuta nel 1815 con il Congresso di Vienna. Una curiosità su di esso la fornisce Ernest Hemingway, che nel libro Festa mobile scrisse che l’Arch del Sempion è allineato all’Arco di Trionfo del Carrousel e all’Arco di Trionfo dell’Étoile di Parigi. Del resto, è proprio dall’Arco della Pace che parte la Via del Sempione, oggi Strada Statale 33: voluta da Napoleone, collega il capoluogo lombardo alla capitale francese.
Il maestoso progetto per Milano
Quelle appena descritte non sono le uniche tracce dell’ambizioso piano urbanistico e architettonico di Napoleone per la città. Restando in tema di arterie di comunicazione, non va dimenticato il Naviglio Pavese. Il canale, che scorre da Milano a Pavia, è chiesto dall’Imperatore e scavato, dal 1812, per permettere alla Via del Sempione di sfociare nel Mare Adriatico attraverso il fiume Po. Sempre al dominio francese risale la terza ala, quella situata verso via Laghetto, della Ca’ Granda, l’edificio sede dell’Università degli Studi. A quel tempo, il palazzo ospitava l’Ospedale Maggiore di Milano.
Anche il Palazzo Reale subisce degli interventi. La parte posteriore della struttura è ampliata su richiesta di Eugenio di Beauharnais, Viceré e figlio adottivo di Bonaparte, con la realizzazione dell’isolato oggi occupato dagli Uffici Comunali. Il Palazzo, in quel periodo, raggiunge il suo massimo splendore: è allora che Andrea Appiani dipinge gli affreschi della sala delle Udienze Solenni, della Rotonda e parte di quelli della sala della Lanterna.
All’Imperatore si deve inoltre il rifacimento – nell’arco di un progetto volto a convertire gli ingressi dei bastioni spagnoli in funzione daziaria e ornamentale – di due delle sei principali porte del capoluogo lombardo. La prima è Porta Ticinese, denominata Porta Marengo in epoca napoleonica. Posta a sud della città, viene progettata in stile neoclassico da Luigi Cagnola e ultimata nel 1814. L’anno successivo, dopo la sconfitta dei francesi, vi è apposta l’iscrizione latina «paci populorum sospitae»: «alla pace liberatrice dei popoli». La seconda è Porta Nuova, situata al centro di piazzale Principessa Clotilde. L’originaria costruzione spagnola viene demolita durante la dominazione francese e ricostruita nel 1813 su progetto dell’architetto Giuseppe Zanoia.
Non meno importante è la costruzione dell’Arena Civica. L’anfiteatro disegnato da Luigi Canonica, ispiratosi al Circo di Massenzio, è voluto proprio da Napoleone, alla cui presenza viene inaugurato il 17 dicembre 1807. La tribuna d’onore, chiamata Palazzina Appiani, reca una struttura che dal lato interno richiama la Roma imperiale mentre su quello esterno, che affaccia su Parco Sempione, ricorda le tipiche ville settecentesche. Il suo fiore all’occhiello è il Salone d’onore, con il fregio continuo dipinto dall’Appiani.
Il Louvre italiano
Nessuna di queste opere, tuttavia, rappresenta il diamante di Bonaparte a Milano. Il vero capolavoro è un altro: la Pinacoteca di Brera, situata nell’omonimo palazzo insieme all’Accademia di Brera e alla Biblioteca Nazionale Braidense. Nata come raccolta di dipinti già nel 1776, è Napoleone a farne ufficialmente un museo il 15 agosto 1809, giorno del suo quarantesimo compleanno. Non un semplice museo, bensì un Louvre italiano. In altre parole, un luogo rivoluzionario al cui interno esporre al pubblico le opere rappresentative di tutta l’arte italiana di ogni epoca.
Bellezze fino ad allora inaccessibili, spesso confinate in chiese e conventi, sottratte durante il sacco d’Italia dall’Imperatore. La cui figura ancora oggi campeggia al centro del cortile d’onore del palazzo di Brera: lì, un’enorme statua in bronzo del Canova, copia dell’originale in marmo, rappresenta Napoleone nelle vesti di Marte pacificatore. Ed è il simbolo, unitamente al calco in gesso esposto all’interno dell’edificio, del legame indissolubile tra Bonaparte e la Pinacoteca di Brera. Vincolo testimoniato dalla scelta del museo milanese di riaprire, dopo il lungo periodo di chiusura dettato dal Covid-19, esattamente 200 anni dopo la morte dell’Imperatore, il 5 maggio 2021.
Attorno al 5 maggio
Il giorno del bicentenario è anche quello dell’inaugurazione, alla Biblioteca Nazionale Braidense, della mostra «La Milano di Napoleone: un laboratorio di idee rivoluzionarie. 1796-1821». A cura della professoressa Giulia Raboni e del professor Giorgio Panizza, al suo interno sono esposti rarissimi documenti e autografi dell’epoca. La mostra, infatti, «è organizzata attorno alla minuta autografa del Cinque maggio di Alessandro Manzoni», spiega Panizza, docente di letteratura italiana all’Università di Pavia. «Poesia che può essere considerata come uno sguardo retrospettivo finale del periodo», che per Milano fu ricco di idee straordinariamente vivaci.
«Per la città l’età napoleonica è stata decisiva», continua il curatore, «sia dal punto di vista politico che letterario». Con la venuta di Napoleone si inizia a discutere della nuova struttura da dare alla penisola. E in questo dibattito la letteratura è uno degli strumenti con cui si manifesta la costruzione di una coscienza nazionale: «è in quegli anni che nasce l’idea della letteratura italiana come patrimonio comune della nazione», afferma il professor Panizza. Tutto si è concentrato nel capoluogo lombardo quindi: «basta pensare che Ugo Foscolo arriva da Venezia. Così come Vincenzo Monti, che giunge da Roma».
Ed è partendo da questi due autori e dalle loro composizioni – dunque, dai Sepolcri e dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo e da Il Bardo della Selva Nera di Monti – che la mostra della Biblioteca Nazionale Braidense descrive la parabola del neoclassicismo italiano, raffrontandola con la tradizione romantica di Manzoni. Senza dimenticare le altre opere esposte, come la Storia delle Arti del Disegno presso gli Antichi di J.J. Winckelmann, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, La Certosa di Parma di Stendhal e la traduzione del Cinque maggio di J.W. Goethe.