Bruna Cases era una bambina milanese di nove anni quando, nel 1943, affrontò un viaggio per sfuggire alla Shoah e arrivare in Svizzera insieme a sua madre e alle sue sorelle. Tra contrabbandieri, “camioncini chiusi”, silenzio assoluto nel bosco e buchi nella rete della frontiera, Bruna ha affidato le sue memorie a piccoli pezzettini di carta, poi trascritti in un diario una volta arrivata a Lugano.
Le leggi razziali e la vita che cambia
Bruna Cases oggi ha novant’anni e abita a Milano insieme a suo marito Giordano D’Urbino, anche lui bambino che nello stesso periodo scappò dall’Italia alla volta della Svizzera per sfuggire alle persecuzioni.
Quando racconta la sua storia, la sua voce è ferma, trema solamente a tratti. Racconta con forza e, alcune volte, sorride con nostalgia soffermandosi sui dettagli dello stupore con il quale una bambina di nove anni ha affrontato le persecuzioni dell’Olocausto.
«Quando arrivarono le Leggi Razziali avevo solo 4 anni, quindi, almeno inizialmente, non impattarono sulla mia vita. Sentivo però il nervosismo in famiglia. Le mie sorelle e mio fratello erano stati espulsi dalle scuole. Mio padre, che era avvocato, era stato espulso dall’ordine e costretto ad abbandonare lo studio fondato dal nonno», racconta.
Le cose cambiarono poco tempo dopo. A causa dei bombardamenti, lei e la famiglia sfollarono a Parma: «Furono giorni tristi, non potevo andare a scuola e non c’erano altri bambini. C’era solo un’altra ragazzina ebrea con cui giocavo un po’. Leggevo tantissimo, però. Non mi ricordo come ma ero riuscita anche a ottenere un abbonamento alla biblioteca, una cosa rarissima».
L’8 settembre del 1943 le cose cambiarono radicalmente. Da bambina che giocava con le bambole e leggeva, Bruna si accorse che ormai la storia si stava occupando di lei personalmente. Da allora, la famiglia capì che non c’era più tempo da perdere. Dovevano scappare.
Il viaggio e il diario
Il padre riuscì a entrare in Svizzera in maniera legale insieme alla nonna, perché da parte elvetica accettavano una persona anziana con un accompagnatore. Una volta lì, pensava di poter far passare il resto della famiglia. Ma non fu possibile.
Bruna, la madre e le sorelle dovettero allora trovare un altro modo per fuggire. A intervenire, furono degli amici di famiglia di Varese a cui, come ricorda Cases, «ancora oggi devono veramente la vita». Infatti, riuscirono a mettersi in contatto con dei contrabbandieri e a organizzare l’ingresso clandestino.
L’incontro con i contrabbandieri è ancora impresso nella memoria di Bruna, per un particolare che solo una bambina potrebbe cogliere: «C’era un furgoncino chiuso e sono rimasta molto delusa. Questo perché ci avevano promesso una bella macchina per portaci a Lugano. Anche se mio padre era avvocato, infatti, non avevo mai occasione di salire in una macchina. Quindi sono rimasta molto male».
Stipate nel furgoncino, Bruna, le sorelle e la madre partirono verso la frontiera. Durante il viaggio, però, il veicolo si fermò improvvisamente. La piccola Cases venne colta dal terrore, pensando si trattasse di tedeschi o fascisti. Invece, erano altri ebrei. In totale erano undici sul furgoncino.
I fuggiaschi vennero portati in una cascina vicino al confine. Stettero lì in attesa dei contrabbandieri per quattro giorni. Il tempo non passava mai, sedevano su delle sedie in cucina, con l’ansia di non riuscire a farcela.
La quarta notte arrivarono i contrabbandieri e si incamminarono insieme a loro verso la frontiera. Fu in quel momento che Bruna decise di scrivere ciò che stava vivendo: « Ho pensato che quel che stavo passando era una storia straordinaria, fuori dal comune, che non tutti i bambini potevano passare una cosa così e ho deciso di scrivere. Appena ho avuto un foglietto, ho scritto le mie prime impressioni. Poi, una volta arrivati a Lugano mi hanno dato un quaderno vero e lì ho trascritto i miei appunti e i miei ricordi».
Camminavano a piedi, seguendo i contrabbandieri in silenzio prima su campi arati e poi nel bosco. Quando arrivarono a poca distanza dalla rete della frontiera, ricevettero l’ordine di acquattarsi nella boscaglia.
Le guide tagliarono la rete, realizzarono un piccolo buco. Uno dopo l’altro, gli undici italiani in fuga entrarono nella fessura. «Dovevamo strisciare, stando attenti a non toccare la rete, perché in alto c’erano dei campanelli che, se toccati, avrebbero suonato e avvertito i soldati. Lasciammo le valigie in Italia, con la promessa di rivederle, ma non fu così».
L’arrivo in Svizzera
Una volta in Svizzera, erano naturalmente tutti felici di aver passato il confine, ma non era ancora finita. Dovevano raggiungere il comando senza farsi trovare e ricevere l’approvazione per l’ingresso.
È in questo momento che Bruna vive uno dei momenti più duri del viaggio: «Era buio e non dovevamo farci vedere. A un certo punto abbiamo visto un gruppo di soldati avvicinarsi con una pila. Noi eravamo nascosti nella boscaglia. Eravamo in undici. Non sapremo mai se non ci hanno visto o hanno fatto finta di non vederci. Fatto sta che riuscimmo a entrare e ad arrivare al comando».
Anche al comando, però, le difficoltà non erano finite. Il rischio era di non essere accettati. «Come scrivo nel diario, mia mamma camminava nervosamente avanti e indietro. Bisogna dire, però, che noi avevamo dei gioielli e il supporto dell’azienda Gondrand tramite mio padre che avrebbe potuto mantenerci. E, forse, per questo ci accettarono. Altri tre fratelli che avevano fatto il viaggio con noi, invece, non vennero accettati. E poco dopo vennero deportati ad Auschwitz. Questa è una cosa che mi ha segnato profondamente e che porto ancora oggi dentro», dice la sopravvissuta.
In Svizzera restarono fino al 1945. La permanenza non fu facile. Il padre, mentre loro cercavano di arrivare, si era ammalato e passarono giorni prima che finalmente si riunissero. Bruna cambiò scuole, alloggi e campi più volte.
L’esperienza più dura fu in un collegio di suore: «Era uno dei collegi più belli di Lugano, ma io mi trovai malissimo. Appena arrivata presero tutte le mie cose, tra cui una bambolina e una piccolissima scatoletta con delle carte da gioco. Poi, c’era la questione della religione. Io sapevo solo una preghiera e arrivai nel mese Mariano, quindi si pregava tutto il giorno. Mi sentivo imbarazzata, non sapevo come comportarmi. Non che le suore mi avessero mai obbligato a fare qualcosa, non dico questo. Ma ho avuto una forte crisi di identità».
Il 25 aprile e il ritorno
Il 25 aprile 1945, la storia torna a occuparsi della piccola Bruna ancora una volta. L’Italia fu liberata e, con lei, anche la bambina poté mettere un punto alla sua personale avventura drammatica: «Fu una gioia immensa. Mi ricordo che abbiamo fatto una festa grandissima. Ero a Roveredo. Ci siamo tutti vestiti a tema, tutto il Paese festeggiava. Abbiamo comprato della carta crespata bianca, rossa e verde. Ci siamo vestiti dei colori della bandiera italiana, mettevamo coccarde, eravamo entusiasti».
Per il ritorno definitivo, Bruna dovette aspettare agosto. Le sorelle e la madre riuscirono a tornare prima. Tornò in Italia con un treno della croce rossa insieme alla nonna e al papà che, nel frattempo, aveva preso la tubercolosi e fu trasportato in sanatorio. Dal finestrino il paesaggio cha cambiava e poi l’arrivo in Italia: «Quando siamo passati a Chiasso ero così felice. Ma veramente così felice che non so descriverlo».