Mio nonno Shlomo: la storia della Shoah raccontata a noi nipoti

Si chiamano Candele della Memoria. Sono gli eredi della Shoah, figli e nipoti dei sopravvissuti all’Olocausto che portano avanti la storia della loro famiglia. Nei loro racconti, la memoria storica si unisce alla vita privata per tramandare un passato che non deve essere dimenticato. Una di loro è Michela Venezia, nipote di uno dei simboli della Shoah italiana: Shlomo Venezia. Shlomo è stato uno dei pochissimi sopravvissuti al Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, l’unità del campo di concentramento definita da Primo Levi come il «crimine peggiore del nazismo». I prigionieri inseriti nel Sonderkommando erano infatti obbligati ad accompagnare i deportati nelle camere a gas e dopo a trasportare i loro corpi nei forni. Le sue testimonianze sono state raccolte in libri, film e documentari. Nel 1997, Roberto Benigni lo chiamò per collaborare come consulente per la sceneggiatura de La Vita è Bella.

Chi era tuo nonno Shlomo?

Shlomo Venezia e sua nipote Michela, Anzio 1998.

Mi ricordo nonno Shlomo come una persona tranquilla, silenziosa, a volte parlava quasi a gesti. Mi ricordo il gesto come per dire “vieni ad abbracciarmi nipotina”, oppure delle smorfie per farmi ridere da piccola.  Era una persona semplice, nel senso buono del termine, era felice se aveva la sua famiglia accanto. E amava fare lavoretti pratici, sapeva fare di tutto, e aveva sempre a portata un coltellino svizzero che da piccola mi sembrava una bacchetta magica.

Quando ha iniziato a testimoniare?

Iniziò molti anni dopo la liberazione, precisamente nel 1992, cinque anni prima della mia nascita. Oltre ad accompagnare e guidare scolaresche nei campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau, testimoniava in tantissimi licei di tutta Italia.

Quando hai saputo per la prima volta della storia di tuo nonno? E come si racconta la Shoah a un nipote?

Shlomo e la sua famiglia.

In famiglia non se ne parlava mai. Anche mio padre mi ha raccontato che era lo stesso quando lui e i miei zii erano piccoli. Voleva vivere con la sua famiglia una vita normale, per quanto possibile. Per esempio, da noi si faceva chiamare Bruno. Ho scoperto più tardi il suo vero nome. Sapevo che soffriva di forti mal di testa e, in generale, percepivo apprensione e premura nei suoi confronti, ma da piccola non mi domandavo perché.

L’ho scoperto da più grande,  a circa dieci anni, nel periodo in cui scrisse il libro. Ed è proprio dal libro che scoprii le atrocità che aveva vissuto mio nonno. Credo sia riuscito nel suo intento di normalizzare le situazioni in famiglia, perché riesco perfettamente a dividere il mio vissuto con lui dal suo passato. Dopo averlo scoperto ho giustificato alcuni suoi atteggiamenti. Certe volte era un nonno molto rigido, non sopportava tanto il caos, e ti sgridava se non finivi il cibo nel piatto.

Ogni Giorno della Memoria si parla di Liliana Segre e della sua frase: «Tra qualche anno non resterà nemmeno una riga sulla Shoah nei libri di storia». Come quella che ormai è la terza generazione può portare avanti il ricordo dei sopravvissuti alla Shoah?

Non è semplice. È necessaria tanta precisione e la responsabilità è tanta. Quello che cerco di fare io, nel mio piccolo, oltre a parlare nel caso mi venisse chiesto, è raccontare la storia di mio nonno e delle mie origini a chiunque incontro sul mio cammino, in maniera diretta. E, spesso, regalo il suo libro.

Con il rinascere dell’antisemitismo che stiamo vivendo, penso alla guerra, alle manifestazioni, agli atti vandalici contro simboli ebraici, quanto ancora è più importante la Giornata della Memoria oggi?

Shlomo e sua nipote Michela.

Quest’anno ho pensato particolarmente a nonno Shlomo. Avrebbe compiuto 100 anni il 29 dicembre. Il 1° ottobre abbiamo ricordato la sua morte e il 7 ottobre è iniziata la guerra. Da allora non ho mai smesso di pensare a quanto avrebbe sofferto se fosse stato in vita vedendo di nuovo certe atrocità. «Ricordare per non dimenticare», scriveva spesso come dedica nei suoi libri che regalava. Lui cominciò a parlare proprio dopo aver notato per Roma scritte antisemite e svastiche, ed ebbe paura. A mio parere oggi è molto più importante fare qualcosa che, tra l’altro, diceva mio nonno: «Bisogna lavorare costantemente alla memoria della Shoah, la Giornata della Memoria è tutti i giorni». Stiamo vedendo come l’antisemitismo è radicato, subdolo, viscerale, e non basta un solo giorno per sradicarlo. La Giornata della Memoria può essere il culmine, ma il lavoro deve essere quotidiano.

Qual è un insegnamento che ti ha lasciato tuo nonno?

Mi ha insegnato la semplicità e la forza. Indubbiamente per me mio nonno è un esempio di vita, di forza d’animo, di voglia di vivere, di coraggio. Mi ha insegnato ad apprezzare le cose più semplici, una carezza della persona amata, un pranzo fuori in famiglia.

 

Guarda qui l’intervista a Roberto Jarach, presidente del Memoriale della Shoah di Milano

Leggi qui l’intervista a Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano

Ettore Saladini

Laureato in Relazioni Internazionali e Sicurezza alla LUISS di Roma con un semestre in Israele alla Reichman University (Tel Aviv). Mi interesso di politica internazionale, terrorismo, politica interna e cultura. Nel mio Gotha ci sono gli Strokes, Calcutta, Martin Eden, Tondelli, Moshe Dayan, Jung e Wes Anderson. In futuro mi vedo come giornalista televisivo.

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