Trent’anni fa a Berlino Est venne organizzata una conferenza stampa per annunciare ai giornalisti importanti novità sul governo. Proprio uno tra i reporter invitati ebbe la libertà (e il coraggio) di fare una domanda ardita: questi provvedimenti sarebbero stati validi anche per Berlino Ovest? Quella notte il muro di Berlino venne abbattuto. «Il legame tra libertà di informazione e libertà civili è indissolubile. L’accesso alla conoscenza è minato dalla dilagante disinformazione online, dalle minacce al giornalismo e dall’indebolimento della sua qualità. Noi vogliamo preservare la qualità del giornalismo indipendente. E chissà che una domanda semplice, di un giornalista competente, non possa abbattere il muro d’acqua che esiste oggi nel Mediterraneo». Così il Rettore della Iulm Gianni Canova ha introdotto la tavola rotonda organizzata per presentare il progetto europeo Erasmus+PAgES Post-Crisis Journalism in Post-Crisis Libya: A Bottom-up Approach to the developement of a Cross-Media Journalism Master Program.
Nei due giorni di incontri, conferenze e round table pensati per raccontare come sia cambiato il giornalismo nelle zone di crisi, la parola spetta ai rappresentanti istituzionali delle università libiche partner del progetto, ma anche a giornalisti che hanno vissuto questa metamorfosi. Gabriella Simoni, giornalista di Mediaset, e Claudio Jampaglia, giornalista di Radio Popolare, ne sanno qualcosa: i due professionisti hanno infatti testimoniato con la loro esperienza come negli ultimi anni si sia modificato il modo di fare reporting dalla Libia, ma anche (e soprattutto) quelli che sono gli elementi imprescindibili del lavoro giornalistico nelle aree di crisi.
Per la Simoni il più grande cambiamento con cui si è dovuta misurare è stato l’avvento delle nuove tecnologie, che hanno indissolubilmente modificato gli strumenti di lavoro del reporter. «Quando ho avuto il primo incarico importante, nel 1991, non c’erano i cellulari e le videocamere erano enormemente più pesanti e costose. Oggi posso fare tutto con il mio smartphone. C’è qualcosa di insito nelle tecnologie che ci consente di avere maggior libertà». Ma quest’ultima non si ottiene solamente tramite l’avanzamento e il miglioramento degli strumenti in possesso dei giornalisti: la vera libertà, dice la Simoni, è quando puoi incontrare persone che sono in grado di raccontarti cosa accade realmente, e possono farlo perché non c’è timore di ripercussioni. «Nel mio lavoro ho sempre sentito il bisogno di parlare con la gente del posto. Anni fa era molto più difficile trovare qualcuno che ti spiegasse senza freni il contesto sociale e storico del Paese; ora so che in Libia posso trovare giornalisti ed editori che sono in grado di dirmi quanto è cambiato il Paese, e questo è, secondo me, l’inizio del cambiamento».
Ci sono diversi modi di fare il reporter secondo Claudio Jampaglia. Uno di questi è reinventare i contenuti, dando loro forme inedite. È quanto sta accadendo negli ultimi anni, con i nuovi reportage che uniscono in un solo prodotto immagini, testo e suoni: lo fa il New York Times negli Stati Uniti, che guida le fila di questa rivoluzione con “Snowfall”, il primo multimedia del genere pubblicato nel 2012, e lo fa il Corriere della Sera in Italia. Una svolta, nelle usanze del giornalismo, che ha però messo in luce una competenza oggi divenuta fondamentale. «Le immagini hanno acquisito sempre più importanza, tanto da mettersi al pari del testo scritto, ma è importante che il pubblico sia in grado di comprendere ciò che queste vogliono raccontare. E in quest’ottica, è necessario avere coscienza di quello che si desidera comunicare».
Forse, tuttavia, la base per poter affermare concretamente il principio di libertà è una sola: l’assenza della paura nel condividere. «Più le persone non sono impaurite dal parlare, più ci sarà libertà», ha affermato Gabriella Simoni. «Bisogna rimanere uniti e creare una nuova generazione, che sia senza confini. Io vorrei parlare giapponese, arabo, sanscrito, vorrei vivere senza confini. E vorrei dire a questi studenti che devono studiare tanto, perché devono togliersi l’idea che questa strada sia veloce e facile».