Secondo uno studio del Politecnico di Milano, in città sarebbero almeno sei le cucine commerciali adibite esclusivamente al delivery. Ma è effettivamente così? Su questi nuovi ristoranti “virtuali” non esistono dati certi.
La nuova frontiera del food delivery
Strutture invisibili, senza insegne né tavoli apparecchiati. Capannoni che nascondono vere e proprie cucine commerciali dove il cibo viene preparato esclusivamente per il food delivery. Sono l’evoluzione della ristorazione e della consegna a domicilio, un modello di business talmente nuovo da non avere una regolamentazione specifica. Le dark kitchen, cucine oscure di nome e di fatto, rispondono a una duplice esigenza: da un lato, quella di una clientela che ha ormai integrato il delivery nella propria routine (il 21% degli italiani ordina cibo a domicilio almeno una volta al mese, con una prevalenza tra i giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni, pari al 29%); dall’altro, quella dei ristoratori, spesso in difficoltà nel gestire le comande quando gli ordini online superano quelli fisici.
Nei locali tradizionali, le file di rider in attesa fuori dai ristoranti, casco in testa, smartphone alla mano, sono ormai un’immagine quotidiana, un ingranaggio essenziale della ristorazione moderna. Eppure, molti esercizi faticano a gestire questa nuova realtà, tanto da decidere di spostare la preparazione dei piatti destinati al delivery in cucine secondarie, di cui il cliente non è a conoscenza.
Una tipologia per ogni esigenza
Esistono diverse tipologie di dark kitchen. Alcune sono gestite direttamente dai ristoratori, come segnalato in precedenza, che decidono di separare l’attività di delivery da quella di sala per evitare che la preparazione degli ordini per l’asporto incida sull’esperienza dei clienti presenti rallentando, magari, il servizio. È il caso di brand già noti che hanno scelto di ampliare la propria produzione senza aprire nuovi ristoranti, ottimizzando i costi e raggiungendo un pubblico più ampio.
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Altre dark kitchen operano, invece, come ghost kitchen multi-brand. Si tratta di strutture che ospitano sotto lo stesso tetto una rosa di marchi spesso appartenenti a una sola società. Questo permette di massimizzare l’uso degli spazi e delle risorse, offrendo menù diversi con un’unica cucina e sfruttando algoritmi che suggeriscono ai clienti prodotti complementari in base ai loro ordini abituali. Vi è anche così un massiccio abbattimento dei costi. Questa nuova branca della ristorazione, infatti, non prevede la somministrazione degli alimenti al cliente. Vengono, quindi, tagliate le voci relative ai costi dell’affitto di uno spazio comprendente una sala, dell’arredo e del personale incaricato del servizio.
Un altro modello diffuso è quello delle cloud kitchen, gestite direttamente da piattaforme di delivery come Deliveroo o Uber Eats, che affittano cucine attrezzate a ristoratori e startup della ristorazione. In questo caso, le piattaforme si occupano della logistica e degli ordini, mentre i ristoratori si limitano alla preparazione del cibo, lavorando in spazi condivisi con altre realtà. Ma esistono anche dark kitchen ibride, che prevedono punti di ritiro per i clienti, o addirittura strutture completamente esternalizzate, dove la preparazione viene affidata a operatori terzi specializzati nella produzione su larga scala.
La regolamentazione
Un panorama estremamente eterogeneo, difficile da catalogare. Partendo da Confcommercio, passando per Assofood ed Epam, fino ad arrivare alla Camera di Commercio di Milano, nessuno ha dati chiari e aggiornati sulla diffusione di queste attività sul territorio. Nel portale web del registro imprese della Camera di Commercio di Milano, sotto la ragione sociale “dark kitchen”, figurano solo due attività. In realtà nessuna di queste è una dark kitchen. La Camera di Commercio spiega che la difficoltà nell’ottenere dati su queste cucine commerciali è dovuta a un vuoto normativo.
Essendo un fenomeno innovativo, anche per quanto riguarda la classificazione ATECO, non esiste attualmente un codice specifico per questi ristoranti virtuali. Queste attività rientrano generalmente in categorie già esistenti, come la 56.10.11, che riguarda la ristorazione con somministrazione e si potrebbe applicare nel caso i ristoranti prevedano anche una minima consumazione sul posto oltre al delivery, la 56.10.20, per la ristorazione senza somministrazione con preparazione di cibi da asporto – forse il codice più coerente con il modello operativo delle dark kitchen – e la 56.29.10, che descrive i servizi di catering per eventi e banquetin.
La scelta della categoria può avere implicazioni burocratiche e fiscali, ad esempio in termini di requisiti igienico-sanitari, autorizzazioni locali e regimi IVA applicabili. E questa può essere una prima zona d’ombra. Se da un lato le dark kitchen rappresentano infatti una soluzione agile e innovativa per il mondo della ristorazione, dall’altro sollevano una serie di criticità. Come sottolinea il progetto del Politecnico coordinato dal direttore del Datsu Massimo Bricocoli: «Non è una semplice delocalizzazione produttiva ma un processo che ha ricadute urbanistiche».
I “lati oscuri” del food delivery
La presenza di queste attività sta trasformando la fisionomia delle città, con capannoni industriali nelle periferie o nelle zone commerciali, luoghi senza insegne né tavoli dove il cibo viene prodotto in maniera quasi automatizzata per un pubblico che spesso ignora la reale provenienza di ciò che consuma. Secondo il progetto, a Milano esiste ad esempio un hub a Greco che ospita fino a 24 cucine operative contemporaneamente, tutte per machi differenti. Il cliente che ordina un pasto attraverso un’app potrebbe credere di riceverlo da un ristorante tradizionale, senza sapere che in realtà è stato cucinato in un ambiente standardizzato. Questa opacità nel processo solleva interrogativi sulla qualità e sulla sicurezza alimentare. La ristorazione passa da luogo di socialità a un semplice servizio di produzione e consegna.
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A risentirne non sono solo i clienti, ma anche i lavoratori coinvolti. Nel settore del food delivery i rider, si trovano a operare in condizioni spesso precarie, senza tutele contrattuali adeguate e con un flusso di consegne che impone tempi serrati. Le dark kitchen non fanno altro che amplificare questa dinamica. Inoltre, eliminare il rapporto diretto tra cliente e ristoratore rende il lavoro dei corrieri alienante, con un aumentato rischio di sfruttamento. Le strade si riempiono di biciclette e scooter, spesso in corsa contro il tempo per rispettare le richieste delle piattaforme, mentre i quartieri vedono aumentare il traffico e il degrado legato agli imballaggi monouso.
L’aspetto ecologico è infatti un altro punto critico. Da non dimenticare che l’aumento esponenziale delle consegne comporta una crescita delle emissioni di CO₂, soprattutto in assenza di un utilizzo prevalente di mezzi elettrici. La sostenibilità di questo modello viene spesso trascurata in nome dell’efficienza e della riduzione dei costi.
Un’alternativa
Eppure, non tutte le dark kitchen operano con la stessa logica. A Milano, sono nate realtà come Via Archimede, una ghost kitchen che funziona come una gastronomia di quartiere, o Delivery Valley, fondata dagli ex concorrenti di Masterchef Alida Gotta e Maurizio Rosazza Prin, che propone un modello multi-brand innovativo. «La cosa incredibile è che puoi avere diversi brand all’interno di un’unica cucina, ognuno con la propria identità, la sua linea e la sua comunicazione», spiega Gotta, sottolineando come le dark kitchen possano offrire opportunità diverse rispetto alle cucine centralizzate gestite dalle grandi piattaforme.
Inoltre, nella città è presente anche Kuiri, una realtà che offre spazi di cucina condivisi, noti come “smart kitchen”, con vetrine dedicate e totem digitali, finestre per il pick-up e aree comuni per il lavaggio industriale, lo stoccaggio e il deposito dei rifiuti. Kuiri inoltre offre a ogni cucina servizi di consulenza e assistenza mirata. Insomma, le dark kitchen rappresentano una trasformazione radicale del settore della ristorazione. Offrono nuove opportunità di business, ottimizzano i costi e rispondono alla domanda crescente di cibo a domicilio. Tuttavia, non mancano interrogativi sulla loro regolamentazione, la loro trasparenza e l’impatto sociale e ambientale di questi modelli. La crescita di queste strutture non può quindi prescindere da una maggiore consapevolezza e da un adeguamento normativo che le renda più sostenibili e integrate nel tessuto urbano.