Dagli abiti da lavoro alle mascherine: così sopravvive una piccola azienda di Lecco

L’epidemia di Coronavirus in Italia ha stravolto la vita di tanti lavoratori e aziende. Molte di esse hanno convertito la loro produzione abituale per dare vita a beni utili a fronteggiare l’emergenza sanitaria nel nostro Paese: mascherine, camici, guanti, ventilatori. All’interno di questo progetto di conversione sono note le grandi firme della moda, da Armani a Gucci. Ma ci sono tante altre ditte minori che, nel loro piccolo, stanno contribuendo allo sforzo nazionale.

La piccola azienda artigiana Conf-Ar, con sede a Lecco, conta otto dipendenti, quasi tutte donne. Prima del coronavirus, quando ancora la quotidianità scorreva regolarmente, produceva abiti da lavoro. Ora confeziona mascherine. “La Conf-Ar è un’azienda storica qui a Lecco. E’ stata fondata da mio padre e mia madre nel 1969”, racconta al telefono Silvia Dozio, 52 anni, una dei tre soci. Gli altri due sono i suoi genitori, di 77 e 78 anni. Hanno deciso di convertire la produzione quando, circa un mese fa, un loro cliente abituale, imprenditore nel settore alimentare, li ha contattati preoccupato, dicendo che aveva urgente bisogno di mascherine per i suoi 300 dipendenti. Mascherine, che, in quei giorni, erano assolutamente introvabili. “All’inizio ero molto titubante”, racconta Silvia. “Gli ho risposto che non avevamo mai realizzato quell’articolo. Lui mi ha inviato una scheda tecnica con le indicazioni per la produzione di una mascherina simil chirurgica. Fortuna ha voluto che la tela di cotone con cui era confezionata fosse la stessa dei camici da lavoro che produciamo di solito. Inoltre, disponevamo anche degli elastici, che utilizziamo per cucire cuffie da lavoro”.
E così la Conf-Ar ha dato il via alla realizzazione dei primi lotti di mascherine, intensificando via via la produzione per soddisfare le richieste di altri clienti del settore alimentare e meccanico. Pur lavorando a ranghi ridotti per tutelare il personale, in tre settimane, sono uscite dalla ditta circa 7000 mascherine.

“Non produciamo DPI (dispositivi di protezione individuale)”, precisa Silvia. “Le nostre sono mascherine filtranti, non utilizzabili quindi in ambito sanitario. Lo specifichiamo sempre ai nostri clienti”.
Quando la sua azienda ha cominciato questa nuova produzione, Silvia ha inviato una richiesta di certificazione all’Istituto Superiore di Sanità. Di norma, se le mascherine non sono DPI, e quindi non destinate agli ambiti socio sanitari, non sussiste la necessità di approvazione da parte dell’Inail o dell’Iss, gli enti che il decreto Cura Italia ha individuato per il controllo qualità. E’ sufficiente un’autocertificazione firmata dall’imprenditore, che dichiara i dispositivi prodotti “non dannosi per la salute”. Tuttavia, una norma emanata dall’Inail precisa che, se le mascherine non professionali sono usate in ambito lavorativo, è comunque necessaria una validazione. Questo è il caso delle simil chirurgiche prodotte dalla Conf-Ar.
Eppure, nonostante il decreto Cura Italia stabilisca che l’Iss debba rispondere entro tre giorni alla richiesta inviata dall’imprenditore, Silvia non ha ancora ricevuto nessun riscontro. “Da quello che sento, la gran parte delle aziende che stanno facendo mascherine simil chirurgiche in tessuto come le nostre, dopo parecchi giorni dall’invio della richiesta, non hanno ancora ricevuto risposta”.

La Conf-Ar, secondo il Dpcm del 22 marzo scorso, fa parte di quel range di aziende che, producendo beni essenziali, hanno la possibilità di rimanere aperte. “In questo difficile periodo di stallo per l’economia italiana, la nuova produzione di mascherine sta in parte contrastando il crollo del nostro fatturato: le ordinazioni di abiti da lavoro sono infatti molto diminuite. Tuttavia, le cifre che guadagniamo con la vendita delle simil chirurgiche non sono minimamente paragonabili a quelle pre coronavirus. Da imprenditrice posso dire che questa conversione, più che una forma di guadagno, è un’operazione di marketing per far conoscere la nostra azienda. Per fare una stima, su dieci aziende che ci contattano per chiedere informazioni, solo cinque comprano le nostre mascherine. Ma le altre potrebbero essere potenziali clienti quando questo orribile periodo sarà finito. Cerco di guardare al futuro con positività”.

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