Ad un mese esatto dall’insediamento del nuovo Governo, c’è un ambito su cui già si registra una forte discontinuità: la comunicazione. Rispetto all’approccio coreografico e annunciatorio di Giuseppe Conte, il nuovo premier Mario Draghi ha adottato uno stile sobrio, quasi austero, che – almeno finora – ha fatto del silenzio e della riservatezza la propria cifra comunicativa.
«Draghi ha fatto proprio il motto di Carlo Azeglio Ciampi: “Repubblica come res severa”. Questo significa mantenere sobrietà nello stile di governo, non dire cose a vanvera, evitare protagonismi e non porsi il problema della visibilità». A parlare è Stefano Rolando, uno che con la comunicazione ha avuto a che fare per tutta la vita: prima come direttore generale del Dipartimento per l’informazione e l’editoria a Palazzo Chigi – dove ha seguito l’attività di dieci governi (dal 1985 al 1995) – poi come giornalista, scrittore, consigliere e docente dell’Università IULM.
Gli annunci di Conte, i silenzi di Draghi
«I governi Conte e Draghi hanno in comune quasi tutti i grandi problemi in agenda: la gestione della pandemia, la crisi economica, la crisi occupazionale, il funzionamento della pubblica amministrazione», spiega Rolando. Ciò che cambia, semmai, è la componente comunicativa, che è passata da una politica di costante annuncio a un nuovo stile fatto di silenzi, riserbo e appelli alla sobrietà.
«Con il precedente governo abbiamo sentito spesso espressioni come “faremo”, “metteremo a punto”, “interverremo”. Una comunicazione che avveniva sempre in una dinamica di annuncio», prosegue Rolando. «Dietro questa scelta c’era una ratio, ossia il dover guidare i comportamenti degli italiani». Nel caso del primo lockdown questo tipo di comunicazione ha funzionato. Non si può dire altrettanto però per la seconda ondata di contagi, quando da Palazzo Chigi si è tentato di esercitare «quella stessa pressione garbata e non imperativa», senza sortire gli effetti sperati.
Nel corso dei suoi due mandati, Giuseppe Conte ha sempre tenuto in grande considerazione l’aspetto comunicativo della propria azione di governo, soprattutto dopo lo scoppio della pandemia. Alla costruzione dell’immagine e del personaggio di “avvocato del popolo” ha contribuito in maniera determinante il lavoro di Rocco Casalino, portavoce e capo ufficio stampa del premier. Pur mantenendo uno stile tutto sommato sobrio, Casalino ha adottato una linea comunicativa molto attenta alla visibilità e alla seduttività del premier, che nel corso dell’ultimo anno ha goduto di un alto indice di popolarità.
Rispetto al protagonismo ingombrante di Casalino, il neo premier Mario Draghi ha scelto come portavoce l’ex Bankitalia Paola Ansuini, che ha da subito imposto uno stile di comunicazione più austero, sobrio e istituzionale. Non è un caso, dunque, che il primo grande cambiamento adottato da Draghi sia stato quello di rinunciare alla politica degli annunci e delle promesse. «Noi comunichiamo quello che facciamo. Non abbiamo ancora fatto niente, perciò non comunichiamo niente», avrebbe detto Draghi nel corso del primo consiglio dei ministri.
«Ad un anno dall’arrivo della pandemia, non c’è più bisogno di orientare i comportamenti», commenta Rolando. «Il problema del governo Draghi, dunque, è quello di assicurare una progettazione per il futuro con pochi aggettivi e con molto metodo. D’altronde, la sua filosofia si è sentita fin dall’inizio: “prima dobbiamo fare le cose, poi comunicarle”. Da questo punto di vista, l’impostazione comunicativa è radicalmente diversa».
«Bene la sobrietà, ma serve anche spiegazione»
Ad un mese dall’insediamento ufficiale del suo governo, sono soltanto tre le occasioni in cui Mario Draghi è intervenuto in pubblico: prima per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, poi con un videomessaggio pre-registrato in occasione dell’8 marzo, infine con la visita al centro vaccinale anti-Covid dell’aeroporto di Fiumicino, a Roma. In tutte e tre le occasioni, il premier ha pronunciato un breve discorso, ma non ha mai risposto alle domande dei giornalisti.
«Draghi non deve rendere conto a un elettorato, per questo non gli si chiede di apparire costantemente in pubblico. Con rispetto della figura, però, io aggiungerei che non si può percorrere questo delicato passaggio storico senza parlare». Il rischio che evidenzia Rolando è quello di uno sbilanciamento verso la “politica del silenzio”, che opera in modo poco trasparente e impedisce ai cittadini di esercitare il proprio controllo sull’attività del governo.
«Di fronte ad un paese in buona parte smarrito, Draghi ha il dovere di fare “accompagnamento sociale”, che non vuol dire adottare un atteggiamento paternalistico. Significa aiutare le fasce più deboli e coloro che hanno meno strumenti per capire», commenta. «La pandemia, inoltre, ha portato a una domanda di più istituzioni e a un’esigenza di approfondimento e spiegazione. La comunicazione di governo, dunque, dovrebbe occuparsi di spiegare questo processo».
Un governo senza social
Un’altra peculiarità del nuovo esecutivo è la scarsa presenza sui social media. Sono sette, infatti, i membri della squadra di governo che non hanno nessun profilo social personale. Tra questi c’è anche il premier Mario Draghi, che veicola le proprie comunicazioni esclusivamente attraverso gli account istituzionali di Palazzo Chigi.
In un contesto in cui i social media stanno assumendo un ruolo sempre più determinante per la visibilità dei politici e la costruzione di consenso, un primo ministro che rinuncia a queste dinamiche rappresenta un’eccezione. Da questo punto di vista, il caso più vicino è la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha reso la riservatezza e l’assenza sui social media i cardini della propria comunicazione politica.
«Ci sono alcune professioni in cui è quasi proibito avere social media, come psicologi, medici e avvocati», commenta Rolando. «Il loro privato non deve entrare nella loro comunicazione pubblica, perché trattano cose riservate. La politica, invece, ha fatto una scorpacciata di social media, perché ha intuito che si trattava del modo giusto per semplificare il messaggio e ottenere consenso. Il fatto che Draghi abbia deciso di rinunciare ad avere un profilo personale mi sembra una cosa giusta».
Se da un lato la rete ha risposto a una domanda di vuoto partecipativo, dall’altro ha fatto prevalere logiche comunicative «che servono più alla visibilità della politica che agli interessi dei cittadini». Prende piede da qui, infatti, l’ipotesi di impedire ai capi di Stato di comunicare tramite i propri profili social personali. Si tratta di una delle questioni più dibattute degli ultimi mesi, soprattutto in seguito ai fatti del 6 gennaio scorso, che hanno mostrato una volta per tutte le conseguenze della comunicazione polarizzante e incendiaria dell’ex presidente americano Donald Trump.
«Non avevamo mai immaginato che capi di Stato, gravati da alta responsabilità morale, potessero usare i social media nel modo in cui Trump ha usato Twitter. Allo stesso tempo, facciamo fatica ad applaudire al fatto che Twitter lo censuri, perché ci sembra un precedente complicato», commenta Rolando. «Credo però che questo problema non si risolva con una legge. Si risolverà soltanto quando i buoni esempi otterranno la maggioranza dei consensi».
Il rigore comunicativo imposto da Draghi alla sua squadra di governo sembra muoversi proprio su questa linea. La vera sfida, a questo punto, sarà riuscire a trovare un equilibrio tra l’eccesso di comunicazione e la necessità di trasparenza.