Il recente assalto alle tre sedi istituzionali più importanti del Brasile è stato paragonato a quanto accaduto due anni prima a Capitol Hill. E ha fatto parlare nuovamente della presunta crisi delle liberaldemocrazie di tutto il mondo. Michelangelo Bovero è uno dei più illustri studiosi di queste tematiche. Allievo di Norberto Bobbio, è stato docente di Filosofia politica presso l’Università degli Studi di Torino. Tra i suoi libri, “Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia” (2000) e “Salus mundi” (2022). Leggiamo l’opinione del professore sul senso e sulle cause di questa presunta crisi delle democrazie.
Dalla Turchia all’Afghanistan, dal Sudan al Nicaragua, da Capitol Hill a Brasilia, passando per l’assalto alla CGIL di Roma. Cosa sta succedendo alle nostre democrazie?
Prima di tutto è già coraggioso chiamarle semplicemente democrazie, senza specificazioni. Negli ultimi 30-40 anni queste forme di convivenza stanno tutte più o meno subendo un processo di erosione, di degenerazione. Uno dei tratti più significativi di questo processo è lo scadimento del peso istituzionale dei Parlamenti a favore degli esecutivi. Questo elemento sta all’origine, insieme a molti altri fattori, delle degenerazioni in corso in molte parti del mondo.
Siamo dunque entrati in quella che Samuel Huntington definirebbe un’ondata di riflusso democratico? Oppure la crisi della democrazia è un processo irreversibile?
Propendo per la seconda opzione e consiglio di prendere con le pinze le categorie di Huntington. Ci sarebbero state, secondo la sua schematizzazione, differenti “ondate di democratizzazione” delle forme di convivenza. Ma dopo la fine o la trasformazione delle sacche di anti-democrazia negli ultimi decenni del Novecento – i regimi autoritari in America latina e le formazioni politiche riconducibili alla costellazione del “socialismo” reale in Eurasia –, i regimi che ne sono seguiti sono tutti nati o rinati già con alcune tare. Per descriverne la natura comune ho parlato di “democrazia apparente”.
Che cosa intende con questa espressione?
“Democrazia apparente” si riferisce a regimi che esibiscono i vestiti della democrazia, ma senza che a questi corrisponda una vera e propria vitalità del principio di autodeterminazione collettiva. La cosiddetta “terza ondata” ha visto nascere regimi già fortemente connotati da una prevalenza dei poteri esecutivi. Ma guardiamo al continente americano oggi: il male dei regimi democratici contemporanei si chiama presidenzialismo. Sarebbe poi da sottolineare la relazione tra il processo di erosione delle democrazie e la progressiva affermazione del pensiero unico, cioè l’ideologia neoliberista.
Il neoliberismo sarebbe una minaccia per la democrazia?
L’ideologia neoliberista, fin dalle sue origini, ha esplicitamente dichiarato che la democrazia è un ostacolo per il capitalismo. Nel saggio “Il futuro della democrazia” del 1984, Bobbio dice che per i neoliberisti l’ostacolo è proprio il principio di autodeterminazione.
In che senso?
Questa sorta di meta-indirizzo politico – il neoliberismo – fin dagli anni Ottanta puntava a diminuire il peso degli organismi rappresentativi, i Parlamenti, per impedire che facessero troppe promesse di spesa. E a metterli sotto tutela di organismi operativi tecnici, pronti alla decisione rapida, in questo senso “executives”, subordinati a un ruolo di comando monocratico. Per essere più efficienti nel rispondere agli imperativi funzionali del capitalismo globale. Di qui è venuta la più forte torsione dei disegni istituzionali dei regimi democratici nel mondo. E ha innescato una trasformazione progressiva verso quella specie politica ibrida che ho chiamato “autocrazia elettiva”. In questi regimi, le elezioni sono sostanzialmente interpretate come atti per l’investitura del capo dell’esecutivo, al quale si attribuisce il ruolo di decisore in ultima istanza.
Anche l’Unione Europea rientra in questo schema di passaggio dalle democrazie alle autocrazie elettive?
L’Unione europea come istituzione non può essere fatta rientrare nella categoria di democrazia. Questo non significa che sia semplicisticamente riducibile alla categoria di tecnocrazia. Certo, la pretesa neutralità delle decisioni tecniche è prevalente
nella politica europea. Si tratta di una mascheratura ideologica di cui si traveste il dominio dell’ideologia neoliberale. Contro tale pretesa di neutralità tecnica si sono scagliati soprattutto i movimenti populisti. Ma questi stessi Movimenti, dove si sono
avvicinati al potere, non hanno finora potuto fare a meno di un supporto tecnocratico, né si sono discostati da politiche economiche sostanzialmente neoliberali.
Torniamo agli ultimi avvenimenti. Ci sono analogie tra l’assalto alle istituzioni brasiliane e quanto successo a Capitol Hill?
Sicuramente. Non c’è soltanto una somiglianza, ma una perfetta identità di fondo: entrambi gli eventi rivelano il pericolosissimo potenziale eversivo delle destre populiste. Seppur con tutte le differenze di storia, struttura e sovrastruttura tra i due Paesi. Il Brasile è l’ultima delle grandi comunità affacciatasi alla cosiddetta “terza ondata di democratizzazione”. La Costituzione brasiliana attualmente vigente è stata approvata solo nel 1988. Gli Stati Uniti hanno invece la Costituzione democratica più antica del mondo.
I nostri regimi democratici dispongono degli anticorpi necessari per sopravvivere?
Non lo so. Per ora sono sopravvissuti tenacemente, nonostante le degenerazioni e i tentativi di alterazione. I segnali sono molteplici, ambigui e contrastanti. Proprio quel che è successo durante la pandemia potrebbe essere interpretato come un indizio della presenza di anticorpi anti-autocratici. Le stesse manifestazioni di paura per una presunta “dittatura sanitaria” – che non c’è mai stata – testimoniano quanto siano importanti le forme, i “vestiti” della democrazia. Anche per coloro che non li capiscono o non si trovano bene dentro. L’ossequio formale alle regole del gioco, anche quando non capite, ha sedimentato una capacità di risposta immunizzante, come in una memoria cellulare.
Questa capacità di risposta può durare?
Questo è l’ultimo baluardo. Finora ha retto. Ma l’onda di “populistizzazione” delle destre tradizionali e di “destrificazione” dei populismi degli anni Duemila non sembra mirare semplicemente a impadronirsi delle istituzioni, a parassitarle, ma a snaturarle.
In epoca di populismo, il presidenzialismo sarà la morte della democrazia.
Si può parlare di un “Populist Zeitgeist”, come fa Cass Mudde?
Direi senz’altro di sì, prendendola però come una formula da analizzare bene. Sono restio a ridurre queste complesse problematiche in semplici formule. Ma, scommettendo sul valore intuitivo che alcune possono avere, potrei dire che i populismi sono i fascismi del nostro tempo. Così come il fascismo storico è stato il populismo di inizio Novecento.
Episodi come l’assalto alla CGIL a Roma fanno presagire un pericolo per la democrazia italiana?
Quella fu una scimmiottatura molto realistica dei metodi squadristi del fascismo storico, in Italia sopravvissuto in varie forme. Ma il pericolo non riguarda solo l’Italia. Dal 2017, l’Europa è attraversata dalla grande paura di uno sfondamento dell’onda populista. Nel nostro Paese lo abbiamo sperimentato l’anno successivo. Molti politologi intravedevano in Francia il rischio maggiore, con l’ascesa di Marine Le Pen. Invece questa apertura di una breccia verso un progressivo sconvolgimento delle istituzioni si è verificata in Italia. Il processo non è però stato sviluppato e portato a compimento da un soggetto collettivo con identità populista per così dire “autonoma”, chiara e distinta. Ma è avanzato per opera di una destra “populistizzata”. E il fenomeno non è isolato: basta guardare all’involuzione del Ppe in Spagna e ancor più chiaramente a Vox, il partito spagnolo neofranchista espressione del più puro fascio-populismo che esiste in Europa.
Come vede la democrazia italiana nel prossimo futuro?
Io vedo la strada spianata per la sconfitta degli anticorpi democratici nel tentativo di proporre in modo accelerato un’opzione presidenzialista. In Italia, dopo il grande
rivolgimento del 1992-94 si è tentato più volte di alterare gli equilibri istituzionali, mediante riforme sottoposte a referendum costituzionali. Gli anticorpi in difesa della democrazia hanno sempre funzionato, tranne nel caso della riforma del Titolo V. Ma io credo che, se ora si andasse in tempi brevi a un referendum sul presidenzialismo, questa volta sarebbe molto difficile impedire l’assassinio della democrazia.
La proposta presidenzialista del governo Meloni costituirebbe un pericolo per la democrazia. Ma c’è chi critica la premier di essere troppo in continuità con il governo Draghi. Lei cosa ne pensa?
Si tratta di due aspetti diversi, in tensione fra loro. Fratelli d’Italia è un chiarissimo esempio della “populistizzazione” delle destre radicali tradizionali. Un caso paradigmatico del fenomeno di ridefinizione delle identità dei soggetti collettivi di destra europei degli ultimi due decenni. Con una tradizione storica consolidata di estraneità e ostilità alla democrazia costituzionale. Ciò è emerso nei primi atti normativi del nuovo governo e nella stessa proposta presidenzialista.
E la presunta continuità con l’agenda Draghi?
Nel nostro tempo di dominio non solo ideologico ma effettuale del neoliberalismo, del capitalismo finanziario, il vincolo tecnocratico sta al di sopra di tutte le variazioni di indirizzo politico. Condiziona ogni governo e ogni regime, in qualsiasi parte dell’Occidente. Da un lato, il neoliberalismo è stato all’origine dei processi degenerativi in senso autocratico e tecnocratico della democrazia negli ultimi decenni. Dall’altro, il suo dominio globale ha riempito il mondo di vittime sociali e ha provocato il dilagare in Occidente di quel malcontento e di quella sfiducia politica che sono all’origine del grande successo dei populismi. I quali si proclamano anti-globalisti, ma certamente
non sono anti-capitalisti. A questa contraddizione è fermo il nostro tempo.