Brasile, l’ennesimo segnale di una crisi delle liberaldemocrazie?

Il recente assalto dei sostenitori di Bolsonaro alle tre sedi istituzionali più importanti del Brasile ha ricordato quanto successo due anni fa negli Stati Uniti. Manifestazione della forte polarizzazione che attraversa il Paese, questa vicenda potrebbe inserirsi in un quadro più ampio di crisi delle liberaldemocrazie. Proviamo dunque a ricostruire quanto avvenuto e a riflettere sull’“ondata di riflusso democratico” che sembrerebbe investire il mondo intero.

Le proteste dopo un’elezione contestata

Nel pomeriggio di domenica 8 gennaio migliaia di sostenitori dell’ex Presidente Jair Bolsonaro hanno assaltato le principali sedi istituzionali del Brasile, tutte situate nella Praça dos três poderes (la Piazza dei tre poteri) di Brasilia. I manifestanti hanno attaccato il Parlamento (detentore del potere legislativo), il Palazzo presidenziale di Planalto (sede del potere esecutivo) e il Tribunale supremo federale (la corte suprema del Paese al vertice del potere giudiziario).

I manifestanti non riconoscono la legittimità della candidatura di Luiz Inacio Lula da Silva, che dopo due mandati da Presidente era stato incarcerato per 18 mesi per corruzione. Né tantomeno il risultato delle elezioni dello scorso 30 ottobre, denunciate per presunti brogli elettorali. Già all’indomani del voto i bolsonaristi avevano organizzato numerose proteste nel Paese.

Il giorno dell’assalto l’ex Presidente non si trovava in Brasile. Il 30 dicembre si era trasferito con parte della sua famiglia a Orlando, in Florida. Forse per disertare la cerimonia del passaggio di consegne al neo Presidente Lula, che sarebbe entrato in carica il 1° gennaio.

Bolsonaro, ex presidente del Brasile
L’assalto alle istituzioni

Nei giorni precedenti all’assalto i seguaci di Bolsonaro si sono organizzati su WhatsApp e Telegram, predisponendo autobus – chiamati “Caravan della libertà” – per portare quante più persone possibili a Brasilia. Alcuni bolsonaristi erano già accampati da due mesi nella capitale, di fronte al quartier generale dell’esercito.

Sui social i dimostranti hanno scritto di voler organizzare per l’8 gennaio una “Festa di Selma”. Hanno usato questo termine per evitare la censura, cambiando una lettera alla parola “selva”, che in Brasile è un grido di battaglia e un tipico saluto militare. L’espressione è presto diventata un trending topic su Twitter.

Il giorno designato i bolsonaristi – tra di loro si chiamano “patrioti” – sono riusciti a sfondare i cordoni di sicurezza e a entrare nei tre edifici. Qui hanno distrutto tavoli e finestre, danneggiato statue e dipinti, tentato di dar fuoco alla moquette del Parlamento, sventolando bandiere verdeoro e indossando magliette della nazionale di calcio. Oltre a essersi appropriati di armi da fuoco, i manifestanti hanno rubato una copia della Costituzione del 1988 dal Tribunale.

La negligenza della polizia
Polizia brasiliana durante l’assalto al Parlamento

Intorno alle ore 21 locali il Ministro della Giustizia Flávio Dino ha comunicato che la polizia aveva ripreso il controllo delle tre sedi istituzionali. La dispersione dei manifestanti è avvenuta tramite l’utilizzo di gas lacrimogeni e proiettili di gomma e bombe stordenti lanciate dagli elicotteri. Secondo le ultime stime, le forze dell’ordine hanno arrestato circa 1500 persone. Di queste, 206 colte in flagranza. “Attacco alla democrazia” e “associazione a delinquere” sono le possibili accuse contro i rivoltosi.

Ma l’intervento della polizia è stato ritenuto da molti troppo tardivo e negligente. Alcuni video diffusi sui social mostrano agenti conversare amichevolmente con i dimostranti e riprendere con gli smartphone l’assalto agli edifici. «La polizia è dalla parte del popolo», hanno commentato compiaciuti alcuni bolsonaristi. Lo stesso Presidente Lula si è scagliato contro quella che ha definito «polizia incompetente o in malafede».

Le dichiarazioni dal Brasile
Lula, attuale presidente del Brasile

Al momento dell’assalto, Lula si trovava ad Araraquara, città nello Stato di San Paolo devastata da un’alluvione. «Quello che hanno fatto questi vandali, questi fanatici fascisti, non ha precedenti nella storia del nostro Paese. Chi ha finanziato queste manifestazioni pagherà per questi atti irresponsabili e antidemocratici», ha affermato il Presidente.

Dall’altro lato, Bolsonaro ha respinto le «accuse senza prove» lanciate da Lula. «Durante tutto il mio mandato sono sempre stato nel perimetro della Costituzione, rispettando e difendendo le leggi, la democrazia, la trasparenza e la nostra sacra libertà», ha dichiarato l’ex Presidente. Bolsonaro ha poi condannato gli attacchi equiparandoli a «quelli praticati dalla sinistra nel 2013 e nel 2017».

Brasilia come Capitol Hill

 

La rivolta dei bolsonaristi ricorda l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Tant’è che Ian Bremmer, politologo Presidente dell’Eurasia Group, ha definito Bolsonaro «il Trump dei Tropici». Il suo parere è che «senza l’attacco di due anni fa nella capitale statunitense oggi non avremmo assistito a questa insurrezione».

Simile il parere del giornalista Federico Rampini: «Secondo Karl Marx la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa». Infatti, come avvenuto due anni fa negli Stati Uniti, i manifestanti hanno dimostrato un «atteggiamento eversivo» e un rifiuto del responso elettorale.

«Questi comportamenti criminali puntano a distruggere un fondamento della democrazia, che è il riconoscimento della legittimità dell’avversario», ha affermato Rampini. Una «sindrome dell’imitazione» che in Brasile è ancora più pericolosa perché il Paese ha una storia democratica molto più recente. La transizione dalla dittatura militare è avvenuta soltanto tra il 1985 e il 1988. Due secoli dopo la nascita della democrazia statunitense.

Un’ondata di riflusso democratico?
Samuel Huntington, politologo

Dalla Turchia all’Afghanistan, dal Sudan al Nicaragua, dal Myanmar alla Tunisia, passando per l’assalto a Capitol Hill e alla Cgil a Roma. Stiamo assistendo a una crisi delle liberaldemocrazie? Dopo il crollo dell’Unione Sovietica questo modello di governo sembrava destinato a trionfare sulla scena internazionale – «la fine della storia» descritta dal politologo Francis Fukuyama.

Ma forse si trattava di una «vittoria sofferente», come l’ha definita il politologo Angelo Panebianco. La democrazia liberale è stata infatti rifiutata da parte del mondo islamico, dell’Asia e dell’America Latina. E oggi sembra più che mai in pericolo.

Secondo il politologo Samuel P. Huntington, negli ultimi due secoli si sono verificate tre «ondate di democratizzazione»: tre periodi in cui numerosi Stati del mondo hanno sperimentato un passaggio da regimi autoritari a regimi democratici. Ma ogni ondata è seguita da un’«ondata di riflusso democratico», ovvero un periodo in cui è maggiore il numero di Stati che affronta una transizione nella direzione opposta.

Viviamo dunque in un’epoca di riflusso democratico? Secondo i dati di Freedom House, ogni anno sin dal 2006 il numero di Paesi che hanno registrato miglioramenti in tema di libertà è stato inferiore al numero di Stati in cui queste libertà hanno subito un regresso. Nel 2021 erano 25 i Paesi con progressi e 60 quelli con peggioramenti. Nello stesso anno, il numero di abitanti di uno Stato libero era il 20.3% della popolazione mondiale, un dato che è calato di anno in anno. Nel 2005 la percentuale si attestava al 46.0%. Secondo questi dati, il mondo sta affrontando da 17-18 anni un periodo di declino democratico.

La polarizzazione e il vulnus istituzionale
Ispi, grafico sulla polarizzazione politica del Brasile

L’assalto alle tre istituzioni di Brasilia si inserisce in questo più ampio contesto di crisi della democrazia. E rappresenta l’estrema manifestazione della crescente polarizzazione del Paese. In Brasile c’è una parte di popolazione che non riconosce la legittimità dell’altra parte politica. I due schieramenti si rifanno a opposti modelli di sviluppo (liberismo contro protezionismo), divergono per collocazione internazionale (Stati Uniti contro Cina) e si concentrano in diverse aree geografiche (sud contro est del Paese).

Ma la polarizzazione avvelena anche le stesse istituzioni del Brasile. Basti pensare ad alcuni giudici del Tribunale supremo federale, in primis Alexandre de Moraes. Questi hanno disposto multe per chi ricordava casi di corruzione del Presidente e imprigionato o cancellato dai social deputati federali e giornalisti. Senza peraltro che la corte suprema avesse il potere di ordinare l’arresto.

Dopo l’assalto di Brasilia Moraes ha compiuto un altro abuso del Codice penale, allontanando per 90 giorni il Governatore del Distretto federale di Brasilia e ordinando a tutti i social di rimuovere i profili di altri deputati. «Un vulnus istituzionale che ovviamente ha aumentato la polarizzazione», sostiene Carlo Cauti, docente presso l’Università Ibmec di San Paolo.

L’assalto di Brasilia e le reazioni delle istituzioni brasiliane sembrano dunque incrementare ulteriormente le divisioni nel Paese. Aumentando la minaccia alle regole del gioco democratico e alla stessa stabilità del Brasile. Ma le ripercussioni si estendono anche oltre i confini nazionali. La destabilizzazione di un Paese così grande e rilevante potrebbe rappresentare un problema per l’America latina e per il mondo intero.

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