«Torno a fare il magistrato» ha dichiarato Raffaele Cantone, dimessosi da presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) sei mesi prima della scadenza del mandato.
Tra le ragioni della sua decisione anche le frizioni con il governo gialloverde. Frizioni evidenti rispetto ai rischi che l’ultimo provvedimento dell’Esecutivo, lo Sbloccantieri, può provocare su una situazione nazionale già compromessa da una corruzione sempre più pervasiva. Capace di annidarsi nelle grandi opere pubbliche, negli uffici delle pubbliche amministrazioni e nella vita di tutti i giorni di milioni di italiani.
Lo scontro più duro con il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che proprio sullo Sbloccantieri ha costruito una propaganda non meno martellante di altre. La volontà di attenuare norme, inasprite con le ultime modifiche apportate al Codice sugli appalti pubblici, dopo i clamorosi casi di corruzione, bustarelle e mazzette con l’Expo di Milano, il Mose di Venezia e il Terzo Valico di Genova, è stata giudicata da Cantone pericolosa. Incosciente.
Perché non si può affidare la crescita del Paese a una semplificazione di norme pensate a garanzia del buon funzionamento di un sistema stretto nella morsa della corruzione.
Con forza e convinzione Cantone ha sostenuto che è proprio il governo a dover dare il buon esempio. Ha avvertito invano sulla necessità di controlli più stringenti per la ricostruzione del Ponte di Genova. Su cui peraltro la longa manus della mafia non si è fatta attendere.
Ma Cantone ha percepito un cambiamento nel clima politico. Convinto che ora avrebbe trovato davanti a sé molti muri da scavalcare. Che sarebbe stato presto demonizzato. Immolato come capro espiatorio, di chi vuole mettere i bastoni fra le ruote al governo che, almeno nelle intenzioni, punta a far crescere il Paese. E che per farlo vorrebbe agevolare le grandi opere e gli imprenditori.
Su questi ultimi Cantone non ha esitato a lanciare l’allarme: spesso infatti sono le imprese a vedere nel rispetto delle regole e delle norme contro la corruzione un grosso limite. Quasi un cappio al collo.
Per questo e molto altro, Cantone ha voluto spiegare in una lettera i motivi delle sue dimissioni, che aveva già annunciato in modo ufficioso al governo. Una lettera composta, avulsa da toni polemici. Ma non priva di critiche e preoccupazioni.
«Sento che un ciclo si è definitivamente concluso, anche per il manifestarsi di un diverso approccio culturale nei confronti dell’Anac e del suo ruolo». Della magistratura ne parla come la sua casa. Al di là degli scontri con il governo gialloverde, Cantone è convinto di non potere più rimanere a guardare rispetto alla delicata situazione che sta vivendo la magistratura italiana, scossa dallo scandalo delle Procure. E da un modo di fare di alcuni magistrati rimasto lontano dall’immaginario collettivo, almeno fino a quando il nome di un togato illustre come quello di Luca Palamara e di altri colleghi non hanno monopolizzato le prime pagine dei giornali.
La lettera di dimissioni
«La magistratura vive una fase difficile che mi impedisce di restare spettatore passivo», aggiunge Cantone nella sua lettera. «E’ una decisione meditata e sofferta, ma credo che sia giusto rientrare in un momento così difficile per la vita della magistratura». Al Csm nei mesi scorsi aveva presentato la candidatura per un incarico direttivo in tre uffici giudiziari, Perugia, Frosinone e Torre Annunziata. Una scelta che non lascia spazio a dubbi quanto alla volontà di Cantone di fare la propria parte, ora che la magistratura è sotto attacco. Fragilissima nella sua credibilità.
Tornando a ribadire che la corruzione si combatte con il rispetto delle regole, la cultura e la prevenzione, Cantone ha messo subito in chiaro che l’Autorità da lui diretta è figlia di un’emergenza che purtroppo non si è mai conclusa. A pochi giorni dai funerali di Francesco Saverio Borelli, capo procuratore del pool di Mani Pulite, Cantone ricorda quanto neppure la tempesta di Tangentopoli, con le sue vittime, i suoi carnefici e condottieri, non sia riuscita a mettere un punto alla corruzione.
Oltre ai dati forniti dall’Anac che ha stimato appalti pubblici per un valore di oltre 139 miliardi di euro, il più alto degli ultimi cinque anni, i dati diffusi dall’associazione internazionale sulla trasparenza (Transparency International Italia) ci dicono che un miglioramento, seppure flebile, c’è stato. L’Italia è passata così dalla 72esima posizione nel 2012 alla 58esima nel 2018. Un “salto”, che però dalle parole, dalle critiche e dal senso di responsabilità dimostrato da Cantone è chiaro che non è ancora sufficiente.
L’associazione indica i problemi che l’Italia deve ancora affrontare: «nel settore pubblico permangono ancora alti livelli di corruzione, scarsa trasparenza e conflitti di interesse, e spetta proprio alle istituzioni e ai cittadini agire». Non basta una legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Non porta alcun beneficio al Paese abbassare la guardia. Insomma, la strada da percorrere è ancora lunga.
Cantone lascia un’eredità tutt’altro che semplice da gestire. Al suo successore spetterà impedire che l’Anac non sia messa all’angolo. E soprattutto che quanto è stato fatto in questi anni non venga vanificato.