«Chi riesce a farvi credere cose assurde può anche farvi commettere cose atroci». Lo diceva Voltaire, lo cita Sacha Baron Cohen, in uno dei più forti discorsi mai pronunciati contro i giganti dell’hi-tech.
L’attore ha analizzato criticamente il mondo del web, ponendo l’attenzione su alcuni temi come il rischio di una sorta di dittatura di Internet, caratterizzata da sentimenti negativi come il razzismo e le notizie false diffuse per manovrare le scelte dei cittadini.
Il discorso, pronunciato a New York al ritiro del premio International Leadership Award della Anti-Defamation League (una ong ebraica che combatte l’antisemitismo) ha scatenato diverse riflessioni su quello che è diventato oggi il world wide web.
Uno spazio circoscritto
Immaginiamo Internet come se fosse una piazza. Un luogo dove diverse persone si aggregano, intrattengono relazioni, comprano e vendono beni e servizi. L’unica differenza tra una piazza fisica e una virtuale è la definizione dello spazio. La circoscrizione spaziale non esiste, il web potenzialmente può raggiungere tutti.
Internet, al momento, è una piazza avvelenata.
Attenzione: Internet, in questo caso, è il mezzo, non la causa. E il veleno esiste da sempre, non nasce nel 1990 con l’invenzione del world wibe web. Odio, razzismo e fake news ci sono sempre stati. Queste ultime potrebbero essere paragonate a quelle che una volta erano le mal dicerie. Nei piccoli borghi si diffondevano a voce e la maggior parte delle volte si riferivano a pettegolezzi da paese. Il fattore spazio era però fondamentale, perché limitava il fenomeno.
«Qui il problema è che si dà a tutte le persone, comprese le più deplorevoli del mondo, la più grande piattaforma mai vista nella storia, che permette di raggiungere un terzo del pianeta» dice Cohen.
Ma davvero basta avere la possibilità di parlare a tutti per essere ascoltati?
In teoria, più persone si ha la possibilità di raggiungere, maggiore è la probabilità che il messaggio si disperda nell’etere. Ed ecco che a questo punto entrano in gioco i colossi del web.
«Pensateci: Facebook, YouTube e Google, Twitter e tutti gli altri. Raggiungono miliardi di persone. Gli algoritmi su cui sono basate queste piattaforme amplificano deliberatamente quei contenuti che permettono di mantenere coinvolto l’utente. Cioè storie che solleticano i nostri istinti più bassi e che fanno scattare lo sdegno e la paura. È per questa ragione che le fake news battono le vere notizie – lo dimostrano anche alcuni studi: le bugie si diffondono a una velocità maggiore rispetto alla verità».
Il comico si riferisce a un’analisi pubblicata su “Science”, secondo cui un’informazione ha il 70% di probabilità in più di essere lanciata e ripresa rispetto a una notizia vera.
«Le farneticazioni di un pazzo sembrano credibili quanto le scoperte di un premio Nobel»
Mark Zuckerberg in passato aveva già provato a giustificare il problema del controllo dei contenuti facendo riferimento alla libertà d’espressione. La società di Menlo Park ha sempre dichiarato di non voler agire da arbitro decidendo cosa è giusto pubblicare o no. Stando alle parole del proprietario del gruppo, la linea è quella di tutelare la libertà di parola, in qualsiasi caso. Un diritto che però secondo Amnesty International non sarebbe per nulla protetto dal social network. La ong ha infatti denunciato Facebook e Google di non rispettare i diritti umani. Il tutto a causa del modello di business delle due società: per accedere ai due potenti mezzi bisogna prima accettare di fornire i propri dati personali. Se non si cedono, si è fuori dalla piazza. Se si è esclusi dalla piattaforma, è impossibile esprimere le proprie idee o informarsi. Un paradosso quindi giustificare il mancato controllo dei post tirando in ballo un diritto fondamentale che non viene garantito se non pagando con la propria privacy.
Uno dei passi fondamentali dell’intervento di Cohen è stato quello riguardante le inserzioni politiche a pagamento:
«Consideriamo la questione delle inserzioni politiche. Per fortuna Twitter le ha bandite, alla fine. Google sta mettendo a punto dei cambiamenti. Ma se le paghi, Facebook invece pubblicherebbe qualsiasi inserzione “politica” tu gli chieda, anche se è falsa. E ti aiuterà perfino a micro-targettizzarla per ottenere dagli utenti il massimo effetto. Usando questa logica distorta, se Facebook fosse esistito negli anni ’30, avrebbe permesso a Hitler di postare spot di 30 secondi sulla sua “soluzione” per “il problema degli ebrei”».
Il rimedio
Il rimedio, secondo l’attore, è semplice: le piattaforme dovrebbero farsi carico della responsabilità di ciò che viene diffuso dagli utenti.
«In qualsiasi altra industria, un’azienda può essere ritenuta responsabile quando il prodotto che propone ha dei difetti. Quando i motori esplodono, o le cinture di sicurezza non funzionano bene, le aziende che producono automobili richiamano decine di migliaia di veicoli, perdendo miliardi di dollari. Sembra ovvio dire a Facebook, YouTube e Twitter: il vostro prodotto è difettoso, siete obbligati a ripararlo, non importa quanto vi costerà e non importa quanti moderatori avrete bisogno di impiegare.
In qualsiasi altra industria si può essere denunciati per il danno che si provoca. Gli editori possono essere querelati per diffamazione, le persone possono essere messe a processo per ingiurie.
Forse le multe non sono abbastanza. Forse è giunto il momento di dire a Mark Zuckerberg e ai Ceo delle altre aziende: avete già permesso a una potenza straniera di interferire con le nostre elezioni. Avete già reso più semplice un genocidio in Myanmar. Fatelo ancora e andrete in galera».