Lo strappo sulle nomine si consuma poco prima di mezzanotte, con due “no” e un’astensione. Un Consiglio europeo, quello del 27 giugno, da cui l’Italia esce isolata. Unico paese in Europa – insieme all’Ungheria di Viktor Orbán – a non approvare il “pacchetto” di candidati alle massime cariche dell’Unione. Dalla premier Giorgia Meloni voto contrario ad António Costa alla presidenza del Consiglio europeo, e a Kaja Kallas alla carica di Alto rappresentante per la politica estera. Astensione, invece, sulla riconferma di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. Così la presidente del Consiglio ha voluto segnalare tutta la sua contrarietà rispetto a un “pacchetto” preconfezionato dall’«élite» europea. Mantenendo, al contempo, un atteggiamento prudente su von der Leyen, nella speranza di portare a termine la trattativa su cui ha lavorato negli ultimi giorni: fiducia degli eurodeputati di Fratelli d’Italia in cambio di un ruolo di peso all’interno della Commissione.
L’esclusione dall’accordo
L’intesa sui cosiddetti top jobs – le massime cariche istituzionali dell’Unione – era stata siglata in via ufficiosa due giorni prima del vertice. Ai popolari (Ppe) sarebbe andata la guida della Commissione, ai socialisti (Pse) la presidenza del Consiglio, ai liberali (Renew Europe) quello che di fatto è il ministro degli Esteri europeo. Un’intesa cui Meloni aveva già reagito con profonda irritazione, sentendosi esclusa dai negoziati – in quanto premier italiana ma soprattutto come presidente di Ecr, il gruppo europeo dei Conservatori e riformisti. Il motivo dell’esclusione è presto detto: «Il partito di Giorgia Meloni non è coinvolto in queste discussioni perché non è accettabile per altri partiti», ha ricordato Mark Rutte, premier olandese uscente e futuro segretario della Nato. La presidente del Consiglio aveva invece criticato i negoziatori europei, di fronte al Parlamento, tacciandoli come un’élite che esclude un paese fondatore quale l’Italia.
Al Consiglio del 27 giugno le trattative sono andate avanti per tutta la giornata. I leader dell’Unione già disponevano dei voti necessari per designare la presidente della Commissione, ossia la maggioranza qualificata di 20 paesi rappresentanti il 65% della popolazione europea. E tuttavia, diversi capi di governo – per evitare lo strappo dell’Italia – hanno provato a corteggiare la premier, assicurando una maggiore valorizzazione del ruolo di Roma all’interno dell’Unione. Ci ha provato Rutte, sostenendo che «si deve fare in modo che anche l’Italia si senta ben rappresentata nella nuova Commissione e non solo». Ci hanno provato pure i due negoziatori dei popolari: il premier polacco Donald Tusk ha assicurato che «non c’è Europa senza Italia, non c’è decisione senza Giorgia Meloni», mentre il leader greco Kyriakos Mitsotakis sosteneva che «non c’è alcuna volontà di escludere nessuno». Ma Meloni non era dello stesso avviso, ed è andata avanti per la sua strada.
Meloni (e Salvini) contro l’Unione
La premier ha dunque deciso di palesare tutta la sua insoddisfazione. Prima chiedendo un voto separato su ogni singolo candidato, e poi votando contro due di questi candidati, e astenendosi sul terzo per pura convenienza politica. Tutto ciò nonostante il sostegno al “pacchetto” Ursula-Costa-Kallas di ben 25 Stati membri, incluso il suo unico alleato in Consiglio, la Repubblica Ceca di Petr Fiala. Gli altri “no” sono arrivati dall’Ungheria di Viktor Orbán, che ha votato contro von der Leyen, a favore di Costa e astenuto su Kallas.
Dopo la riunione del Consiglio la premier si è sfogata su X. «La proposta formulata da popolari, socialisti e liberali per i nuovi vertici europei è sbagliata nel metodo e nel merito», ha scritto sul social di Elon Musk. «Ho deciso di non sostenerla nel rispetto dei cittadini e delle indicazioni arrivate con le elezioni». Molto più dure le parole del vicepremier Matteo Salvini: «I partiti che hanno perso fanno nascere una Commissione fregandosene del voto degli italiani. Questo è irrispettoso e arrogante». Per il leader della Lega l’accordo europeo «puzza di colpo di Stato», perché «milioni di cittadini hanno chiesto di cambiare l’Europa. E che cosa ti ripropongono quelli che hanno perso? Le stesse facce».
Sos Ursula
Adesso si apre la fase due delle trattative. Il prossimo appuntamento decisivo potrebbe essere la prima riunione del Parlamento europeo, in programma per il prossimo 18 luglio. Gli eurodeputati saranno chiamati a esprimersi sulla figura che si insedierà al vertice della Commissione. Popolari, socialisti e liberali possono contare su 399 seggi a fronte di una maggioranza di 361, ma il voto è segreto e la rielezione di von der Leyen potrebbe essere minata da un manipolo di franchi tiratori, che gli analisti stimano intorno a 40-50 parlamentari.
Il gruppo dei Conservatori e riformisti conta 83 seggi nell’Eurocamera, di cui 24 occupati dagli italiani di Fratelli d’Italia: da questo bacino potrebbero arrivare i voti necessari alla presidente uscente per sentirsi al sicuro. L’attuale numero uno della Commissione ha infatti intrattenuto, nell’ultimo anno e mezzo, un rapporto piuttosto positivo con la premier italiana, che si era detta disposta a votare per un bis di von der Leyen in cambio di un commissario di peso per l’Italia, preferibilmente un vicepresidente esecutivo. L’astensione di ieri segnala proprio la volontà di Meloni di mantenere aperte le trattative.
Insidie da Macron e dai Verdi
E tuttavia, la partita si è complicata. Anzitutto per il ruolo della Francia, e in particolar modo di Emmanuel Macron. L’inquilino dell’Eliseo ha deciso di giocare d’anticipo, così da evitare possibili interferenze del prossimo governo, che dopo le imminenti elezioni sarà guidato con tutta probabilità da Jordan Bardella del Rassemblement National. Macron sta dunque spingendo sul nome di Thierry Breton, attuale commissario per il Mercato interno, per una vicepresidenza esecutiva all’interno della commissione. La sua nomina, però, chiuderebbe le porte a un ruolo di prestigio per l’Italia. Una complicazione cui si aggiunge, sul piano parlamentare, il possibile soccorso dei Verdi alla maggioranza Ursula.
Gli ambientalisti occupano 54 seggi nell’Europarlamento: da soli basterebbero a mettere al riparo von der Leyen dal pericolo dei franchi tiratori. Il che renderebbe di fatto inutile il soccorso degli eurodeputati di Fratelli d’Italia, che perderebbero dunque quella carta fondamentale per strappare all’Unione una vicepresidenza esecutiva. E non si tratta solo dei Verdi: i socialisti starebbero corteggiando pure Robert Fico, il premier slovacco precedentemente espulso dal gruppo per le posizioni filorusse e per le inchieste giudiziarie a carico dei suoi sodali, che porterebbe sette voti alla maggioranza.
Possibile spaccatura dei popolari
Il soccorso di forze diverse dai conservatori potrebbe tuttavia far scattare un’operazione del tutto inedita. Dalle indiscrezioni di queste ore sembra infatti esistere un piano alternativo alle manovre in sede di Consiglio: cercare di mobilitare un pezzo del Ppe contro la ricandidatura di von der Leyen, a partire dagli eurodeputati di Forza Italia. L’operazione sarebbe guidata proprio da Antonio Tajani, leader del partito fondato da Berlusconi e figura di spicco dei popolari. «Il Ppe non può aprire ai Verdi perché questo metterebbe a rischio anche l’elezione di von der Leyen», ha sottolineato il vicepremier. «Bisogna avviare un dialogo con i conservatori».
Dello stesso avviso pare il presidente del gruppo, Manfred Weber, grande nemico di von der Leyen e amico del ministro degli Esteri italiano. A suo dire, sta ormai nascendo un’alleanza continentale plasmata su un «arco costituzionale» diverso dal passato. Si fonda sull’atlantismo e sul sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa, principi che Meloni ha scelto di sposare senza esitazioni di alcun tipo. Su queste basi potrebbe appunto maturare il sostegno di Weber al presunto piano dell’Italia: in tal caso, i popolari potrebbero davvero spaccarsi e la presidente uscente verrebbe bocciata in Parlamento.
Fuori il Pis dai conservatori?
Certo, un problema in tal senso è rappresentato dal Pis, ossia il partito polacco Diritto e giustizia dell’ex premier Mateusz Morawiecki, che Meloni ha sempre definito «un amico». La presenza di questa forza politica ultranazionalista nel gruppo dei conservatori europei costituisce un aspetto difficilmente digeribile per i popolari. Ma il Pis pare intenzionato a valutare un’uscita da Ecr. «Direi che la probabilità è del cinquanta per cento», ha azzardato Morawiecki. A quel punto i conservatori perderebbero 20 deputati, e scenderebbero da terzo gruppo più numeroso nell’emiciclo direttamente in quinta posizione, superati da Renew Europe e dalla stessa Identità e democrazia di Salvini e Le Pen.
L’uscita del Pis potrebbe però rappresentare una risorsa per Meloni, sbloccando una possibile trattativa con una parte dei popolari per uno sgambetto a von der Leyen. La prova del nove non potrà che essere la prima riunione dell’Europarlamento, quella in cui appunto si voterà il vertice della Commissione. A Strasburgo si vedrà se l’Italia è davvero sprofondata in una condizione di solitudine, isolata in Europa come l’Ungheria di Orbán. O se Meloni si sarà dimostrata capace di portare a termine le trattative – quella con von der Leyen o quella parallela con i popolari. Riuscendo a ritagliare, per il paese, un ruolo di prestigio nei futuri assetti dell’Unione.