A sei giorni dalla morte di Aleksej Navalny, le cause del decesso rimangono oscure, circola però l’ipotesi di avvelenamento. La salma del più grande oppositore di Vladimir Putin non è ancora stata restituita alla famiglia per l’autopsia. “Se mi uccideranno, non arrendetevi”, è la vedova di Navalny, Yulia Navalnaya, a non arrendersi.
La donna, insieme alla famiglia, accusa Putin di avere assassinato il marito con il Novichock. Il veleno era già stato utilizzato sul dissidente nel 2020. La produzione del Novichock iniziò nell’Unione Sovietica negli anni ‘80. E si inseriva in un programma segreto chiamato Foliant. Lo scopo del progetto era quello di aggirare i controlli sulle armi chimiche. Il Novichock provoca morte per asfissia, oggi la sua produzione non è più legale. Le indagini sulle cause della morte sono ancora in corso, ma il decesso per avvelenamento spiegherebbe perché i risultati degli esami sul corpo del defunto non arriveranno prima di 14 giorni.
Il messaggio dietro l’avvelenamento
Si dice che in Russia nulla accada per caso. Effettivamente, la sostanza era già stata utilizzata nel 2018 sull’ex spia russa Sergei Skripal, sopravvissuto. Ma anche su Alexander Litvinenko, agente dei servizi segreti russi fuggito nel 2000 in Inghilterra. Litvinenko nel 2002 pubblicò un libro dove accusava Putin di aver organizzato attentati, poi attribuiti ai ceceni. Lo trovarono morto nel 2006, per un avvelenamento da polonio-210. La Russia non è un caso isolato.
Il politologo Mark Galeotti ha evidenziato perché viene utilizzato il veleno per crimini politici. La prima motivazione è che il veleno sancisce chi sia il mandante del crimine, senza lasciare agli investigatori la possibilità di stabilirlo con certezza. La seconda motivazione è che il veleno è una firma. Se non sei d’accordo con il regime non puoi scappare, morirai soffrendo. Infine, l’utilizzo del veleno crea incertezza. Viene punito un dissidente che deve servire ad esempio per tutti gli altri. Al di là delle teorie del politologo, i decessi di dissidenti per avvelenamento sono tantissimi. Ma non sono solo russi.
Kim Jong-nam e Negassi Tsegay
Era il 13 febbraio 2017 quando Kim Jong-nam, fratellastro del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, fu assassinato all’aeroporto di Kuala Lumpur. L’autopsia aveva fatto emergere che l’uomo era morto a causa dell’agente VX nervino, un veleno. È stato tutto ripreso dalle telecamere dell’aeroporto malese, che hanno reso semplice la ricostruzione. Due donne si avvicinarono a Kim Jong-nam, spalmandogli del finto olio per bambini in faccia, si scoprì in seguito che era l’agente VX nervino. È probabile che il dittatore Kim Jong-un avesse comandato l’omicidio del fratellastro perché questo era in contatto con la Cia, a cui forniva informazioni riguardo alla dinastia. Questo esempio mette in luce le teorie di Mark Galeotti. La firma è chiara, ma non ci possono essere certezze. Kim Jong-nam si trovava in Malesia, ma non ha potuto scappare dal regime nordcoreano. La sua morte era un messaggio per chiunque si mettesse contro il dittatore.
Nell’estate del 2001 un’equipe medica svedese levò dal cranio di Negassi Tsegay un’ampolla che rilasciava veleno. L’uomo aveva partecipato alla guerriglia di liberazione eritrea, all’epoca lavorava nell’ufficio del presidente eritreo Isaias Afewerki. Tsegay si dimise quando il regime iniziò la repressione dei dissidenti politici. Venne incarcerato, picchiato e ricoverato in ospedale. E fu in quelle circostanze che i medici gli inserirono un’ampolla dietro l’orecchio destro che rilasciava veleno. L’uomo riuscì a scappare e in Europa venne soccorso. Se non gli avessero asportato l’ampolla in tempo sarebbe morto e nessuno avrebbe mai scoperto la motivazione. La sua storia, anche se a lieto fine, ricorda quella di Kim Jong-nam e degli altri dissidenti russi.