Chokepoint: dove Cina e USA si sfidano a colpi di container

Gaza, Sudan, Ucraina. Solo per citarne pochi. Conflitti attivi che insanguinano e lacerano Paesi. Ma anche situazioni di tensione a livello economico. Nascoste, quasi sotto pelle, dietro alle grandi rotte mercantili. Perché le grandi potenze – o quasi tutte – sembrano aver compreso la necessità di un ordine e di un equilibrio globale. Ciò, però, non significa rinunciare alla ricerca di un’egemonia commerciale. E quando tutto il mondo è legato da un unico filo, controllando gli snodi si tiene per il collo l’avversario.

Dal Pivot to Asia americano alla Belt and Road Initiative cinese. Con strategie diverse, i due colossi della modernità si contendono e si ostacolano a vicenda in quelle stesse giunture che sono per entrambi vitali. I cosiddetti ‘punti di strozzatura’.

Cosa sono i punti di strozzatura?

In Italia sono noti come ‘colli di bottiglia’. L’inglese, come fa spesso, ne dà una immagine più colorita: chokepoints, che l’italiano ha tradotto letteralmente in ‘punti di strozzatura’. Si tratta di località dotate di una specifica conformazione geografica che, per la loro posizione critica, sono controllati militarmente e commercialmente da determinate potenze.

Possono essere terrestri, come valli e ponti. E come il celebre Passo delle Termopili, dove si racconta che nel lontano 480 a.C. lo spartano Leonida con 300 uomini riuscì a rallentare l’invasione persiana. Esempio che forse rende più chiara la metafora del soffocamento che sta nel nome chokepoint. Insomma, punti di passaggio obbligati e strategici, talmente stretti da poter essere agevolmente controllati da un manipolo di uomini.

rotte-commerciali
Le principali rotte commerciali del globo. Da notare gli enormi traffici intorno alla Penisola Arabica e nel Mar mediterraneo

Col passare del tempo, e lo svilupparsi logistico e militare della navigazione, i punti di strozzatura si sono progressivamente spostati in mare. Già ai tempi dell’Impero Britannico il controllo militare dei colli di bottiglia era parte fondamentale della gestione dei commerci con le colonie. Ma l’importanza geopolitica dei punti di strozzatura non ha fatto altro che aumentare, in parallelo con il valore dell’economia globale.

L’importanza dei chokepoint

Il 60% del commercio mondiale di petrolio e il 100% del commercio di Gas Liquido Naturale (LNG, Liquified Natural Gas) avviene via mare. Non solo. Anche alimenti, medicinali, metalli ed equipaggiamento militare. Così viene spostata tutta la merce pesante, troppo ingombrante e non deperibile. Per due semplici motivi: costa meno e permette il trasporto per lunghe distanze, anche se a velocità minori rispetto agli aeroplani.

Una nave metaniera, che trasporta LNG, all’interno del sistema di chiuse del Canale di Panama. Quest’ultimo è uno dei principali punti di strozzatura al mondo

Ogni anno, metà della merce che viene trasferita si muove in area asiatica lungo le Linee Marittime di Comunicazione (SLOC, Sea Lines of Communication). Quell’insieme di rotte marittime e di porti, dei quali le grandi potenze si contendono il controllo militare, logistico e commerciale. Primi tra tutti, ovviamente, Cina e Stati Uniti. Entrambi ancora fermi all’illusione utopica di un imperialismo del XXI secolo, stendono le loro mani sul globo in maniera molto differente.

L’interventismo nei chokepoint dell’aquila americana

In comune c’è la continua ricerca di un fragile equilibrio. Un equilibrio che permette, a Pechino come a Washington, di perseguire la stabilità delle principali SLOC giustificando ogni mossa tramite la lente degli interessi di sicurezza nazionale. Gli approcci a questo medesimo obiettivo, però, sono quanto di più distante si possa trovare.

Gli Stati Uniti tendono a prediligere il controllo diretto attraverso il dispiegamento di forze militari. Sono circa 800 le basi a stelle e strisce sparse in oltre 70 Paesi del mondo. E alcuni punti nevralgici dei mari sono monitorati e presidiati tramite reparti della flotta.

Truppe americane pattugliano le acque vicino al Golfo Persico
Truppe americane pattugliano le acque vicino al Golfo Persico

Come, guarda caso, molti dei chokepoints. Lo scopo è semplice: contenere l’espansione delle aree di influenza di Stati potenzialmente pericolosi (Russia, Iran e Cina su tutti). Una tattica che però, negli ultimi decenni, Washington sta iniziando ad abbandonare. Rilassare i rapporti con i Paesi arabi è fondamentale per il successo della politica ‘Pivot to Asia, che prevede lo spostamento del baricentro politico-militare verso l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico Occidentale.

Per questo motivo, il nuovo piano americano prevede una intensa collaborazione con il Medio Oriente. Viene definito burden-sharing: una condivisione degli oneri. Washington così si sottrae al suo antico ruolo di garante della sicurezza militare ed economica dei punti di strozzatura, pur non scomparendo. Al contrario, si limita a condividere il loro controllo e la loro sorveglianza con i Paesi alleati o partner.

La strategia del Dragone

Pechino preferisce un modus operandi molto più subdolo, tramite l’utilizzo di longae manus. E cioè organismi terzi che, più o meno nascostamente, agiscono per suo conto. In questo caso, società e aziende di proprietà statale che raggiungono accordi commerciali con porti e strutture straniere. In linea con questa politica, il colosso asiatico ha rifiutato di collaborare con gli Stati Uniti per il pattugliamento navale di sicurezza dei punti di strozzatura. Al contrario, ha rinforzato le relazioni con Arabia Saudita e Iran, entrambi in prossimità di chokepoints fondamentali. E, per Teheran, il patto da 400 miliardi di dollari con il Dragone è una buona ragione per garantirgli la sicurezza delle sue merci.

iran-cina
Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif (a dx) e il suo omologo cinese Wang Yi dopo aver firmato il “Patto di cooperazione strategica di 25 anni” nella capitale Teheran, il 27 marzo 2021

In alternativa, la Cina può operare in prima persona. Si lega ai Paesi in prossimità o con diretto accesso ai colli di bottiglia tramite prestiti di denaro. Finanziamenti orientati allo sviluppo di infrastrutture critiche in settori come quello manifatturiero, energetico o dei trasporti. In uno step successivo, poi, Pechino si avvicina ancora di più a questi Stati dal punto di vista commerciale, diplomatico e militare. È la cosiddetta Belt and Road Initiative, che crea una forte interdipendenza economica tra i diversi attori. La BRI non si limita solo a questo. Bensì prevede la costruzione di un network di strutture e accordi lungo le SLOC: la “Collana di perle”. Questo tema sarà approfondito in un prossimo articolo.

Le nuove Vie della Seta secondo l'iniziativa cinese (fonte: MERICS)
La Belt and Road Initiative ha due direttrici: quella terrestre e quella marittima (fonte: MERICS)

I principali chokepoints

Sebbene non ci sia l’elenco ufficiale dei punti di strozzatura, con il tempo una decina di loro si sono affermati come fondamentali per l’economia globale.

Alcune zone del mondo, però, presentano una conformazione geografica che permetterebbe la creazione di nuovi posti di blocco lungo le maggiori tratte commerciali. Basti pensare agli arcipelaghi del Pacifico. Primi tra tutti quelli del Mar Cinese Meridionale, tramite cui ogni anno passa un traffico di merci per tre triliardi di dollari all’anno (tremila miliardi di miliardi). Vediamo, però, quali sono i principali colli di bottiglia. A partire dal continente americano.

Canale di Panama
La collocazione geografica del Canale di Panama, che quasi chiude il Centro America

Per la posizione sulla cartina geografica – un netto taglio a metà del continente americano – è abbastanza semplice presupporre che la gestione del passaggio avvenga sotto l’egida degli Stati Uniti. È un’opera artificiale lunga circa 80 chilometri e larga, nel suo punto più stretto, solo 90 metri. Ciononostante, il 6% della merce globale attraversa questo canale.

Sorprende, invece, il fatto che l’influenza di Pechino su questo chokepoint sia sempre maggiore. Addirittura un quinto del cargo ospitato nelle acque di Panama parte da o arriva in Cina. E proprio qui il colosso asiatico ha applicato magistralmente la sua strategia tramite una longa manus. Nel 2016 la Landbridge Group ha acquistato per 900 milioni di dollari l’Isola Margarita. Un piccolo territorio sull’Atlantico dove è situato il maggiore porto di Panama. Qui, finanziata da Pechino, ha costruito un enorme hub logistico che ospita esclusivamente prodotti cinesi.

Il sistema di chiuse caratteristico dei canali artificiali. Si può notare la la strettezza del passaggio

A confermare la crescente presenza del Dragone in quelle zone, le 40 società cinesi lì operanti. Non solo. Ultimamente le decisioni del governo di Panama sembrano far trasparire un desiderio di divincolarsi dalla presa di Washington. L’amministrazione di Nuestra Señora de la Asunción de Panamá (detta anche Panama City) è stata la prima nel mondo latino-americano ad aderire alla Belt and Road Initiative. Così come si sono rifiutati di bloccare le merci russe dopo l’aggressione di Mosca in Ucraina, mai condannata da Xi Jinping. Una sorta di doppio gioco per tenersi buone entrambe le superpotenze.

Stretto di Magellano
La punta meridionale del Sud America, con l’apertura dello Stretto di Magellano

Situato tra il Cile continentale e la Terra del Fuoco, è il principale punto di raccordo naturale tra l’Oceano Pacifico e l’Oceano Atlantico. Largo al minimo 2 chilometri e lungo fino a 570, è fondamentale per le grandi navi da carico, che quindi non possono sfruttare la scorciatoia di Panama.

Il tipico paesaggio della Terra del Fuoco, che fa da cornice allo Stretto

Storicamente legato agli Stati Uniti, negli ultimi tempi la Cina ha provato anche qui il suo classico approccio. HydroPower, azienda di proprietà statale specializzata in ingegneria pesante e civile, ha acquistato il diritto di costruire diverse strutture (). Queste sorgeranno vicino al Porto di Ushuaia, città argentina vicina allo Stretto di Magellano che ospita una zona offshore di ricerca ed estrazione di petrolio e gas. Una operazione che infastidisce i traffici americani e al contempo dà alla Cina un ottimo punto di appoggio per accedere all’Antartide (a soli 1100 km da lì).

Stretto di Gibilterra
Lo Stretto di Gibilterra, porta d’ingresso del Mar Mediterraneo

Pinzato tra la Penisola Iberica e il Marocco, è largo 13 chilometri e costituisce il solo canale di comunicazioni tra l’Oceano Atlantico e il Mar Mediterraneo. Non a caso, le due località note come Colonne d’Ercole furono per secoli oggetto di contese tra le grandi potenze. Nella sua parte europea, lo Stretto presenta un territorio d’oltremare del Regno Unito, sebbene la corona spagnola continui a rivendicarlo. La città di Gibilterra è considerata un vero e proprio paradiso fiscale. Ci sarebbero, ad esempio, più società registrate che abitanti.

Lo Stretto di Gibilterra visto dal cielo sopra la Penisola Iberica

Qui sono situate basi militari inglesi, navali e aeree, che permettono di monitorare da vicino i traffici commerciali. È uno dei colli di bottiglia più trafficati al mondo: si conta il passaggio giornaliero di 150 navi. Ogni anno solcano le sue onde 18mila petroliere: il 5% del commercio globale di greggio.

 Stretto del Bosforo e Stretto dei Dardanelli
Lo Stretto dei Dardanelli (in giallo) e quello del Bosforo (in rosso), che collegano tra loro Mar Egeo, Mar di Marmara e Mar Nero

Sebbene località ben distinte, Dardanelli e Bosforo sono considerati indivisibili perché segnano il confine tra Europa e Asia. Il primo permette il passaggio dal Mar Egeo al Mare di Marmara, che è a sua volta unito al Mar Nero tramite il Bosforo. Ambedue i punti di strozzatura sono fondamentali per lo spostamento di alimentari (in primis grano), metalli e fertilizzanti. I maggiori fornitori della regione di queste materie prime sono Russia e Ucraina, che ha in Odessa il porto principale. Non è un caso che, con le rotte bloccate o seriamente compromesse a causa dell’attacco russo, si sia registrato un aumento dei prezzi globale. Le tratte dall’inizio del conflitto a oggi si possono vedere in questa animazione del Washington Post.

Sebbene l’impatto sul commercio mondiale sia minore rispetto ad altri chokepoints, gli Stretti sono un crocevia per il 45% degli scambi europei. E già nel 1936 era chiara la necessità di un trattato ufficiale che regolasse il controllo di Dardanelli e Bosforo. Il 20 luglio di quell’anno si siedono allo stesso tavolo Francia, Turchia, Bulgaria, Giappone, Grecia e Unione Sovietica. L’accordo che ne nasce, noto come Convenzione di Montreux, stabilisce con chiarezza il regime di navigazione di quelle acque.

Una nave da guerra turca si avvicina allo Stretto del Bosforo. All’orizzonte è visibile il ponte che collega le due metà della città di Istanbul

Il principio su cui si fonda il documento è la completa libertà di transito delle navi mercantili di qualsiasi bandiera. Condizione che però rimane valida solo in tempo di pace. Per quanto riguarda le navi da guerra, è sancito l’obbligo di informare il Governo turco otto giorni prima del transito. In caso di conflitto, invece, la Turchia acquisisce il pieno potere di limitare il passaggio navale solo alle ore diurne e alle imbarcazioni non in conflitto con Ankara.

Canale di Suez
Il Canale di Suez, che separa l’Egitto ‘continentale’ dalla Penisola del Sinai

Insieme a Panama, uno dei due punti di strozzatura artificiali: misura dell’importanza data a questi passaggi. Situato in Egitto a est della Penisola del Sinai, fu inaugurato nel 1869 dopo 10 anni di lavori sotto la guida del francese Ferdinand de Lesseps. Il progetto originale, dell’ingegnere italiano Luigi Negrelli, fu poi ulteriormente ampliato negli ultimi 12 anni. Attualmente il canale è lungo 193 km e ha una larghezza che varia tra i 205 e i 225 metri. Per i traffici marittimi è semplicemente insostituibile: permette di evitare la circumnavigazione dell’Africa, un allungamento di almeno 10mila chilometri.

Una vista dall’alto del Canale, che si può apprezzare in quasi tutta la sua lunghezza

Nel canale transitano in media 78 navi al giorno, oltre 17mila ogni anno. In poche parole, intorno al 10-12% di tutto il traffico mercantile mondiale. Nel biennio 2021-2022 sono passati per Suez fino al 10% del greggio e l’8% di LNG globali. In totale circa 1500 miliardi di dollari. I proventi doganali del Canale costituiscono la seconda maggiore fonte di introiti per lo stato d’Egitto. Dietro solo alle rimesse degli egiziani che lavorano all’estero: 17,5 miliardi di dollari nei primi 9 mesi dell’anno fiscale 2022-2023. Secondo Statista, nel solo mese di gennaio 2023 Suez ha arricchito le casse del Cairo di 743 milioni di dollari.

Un potenziale blocco del canale sarebbe estremamente dannoso. Un piccolo assaggio delle conseguenze ci è già stato fornito. La VLCC Ever Given si incagliò nel canale bloccando completamente il traffico per 6 giorni, dal 23 al 29 marzo 2021. I danni arrecati all’economia globale in quelle 144 ore sono stimati intorno ai 60 miliardi di dollari complessivi.

La nave VLCC Ever Given incagliata nel Canale. Al suo fianco, imbarcazioni più piccole cercano di spostare il mercantile. (Fonte: NYT)

La Cina ha ben compreso l’importanza di questo chokepoint per i suoi traffici. Dati alla mano, il 60% della merce cinese che va in Europa passa da qui. Dunque non è un caso che il colosso asiatico sia il Paese che punta di più sul controllo indiretto di Suez, tanto da inglobarlo nella Nuova Via della Seta Marittima.

Stretto di Bab-el-Mandeb
Lo Stretto di Bab-el-Mandeb (in basso) e la stretta connessione dei traffici che di lì transitano con il Canale di Suez

Un nome, una garanzia. Il termine in arabo significa ‘Porta del lamento funebre’, in riferimento ai pericoli della navigazione. Secondo alcuni studiosi della Preistoria potrebbero essere passate qui, durante un periodo di secca, le prime migrazioni di Homo sapiens. Rinchiuso tra due promontori, uno in Yemen e uno a cavallo di Eritrea e Gibuti, nel suo punto più stretto è largo 26 chilometri. Un piccolo isolotto vulcanico, denominato Perim, divide in due parti lo stretto. Quella a est, più piccolo, prende il nome di Bab Iskander (Porta di Alessandro); l’altra è chiamata Dact-el-Mayun.

Una foto satellitare dello Stretto di Bab-el-Mandeb, al cui interno è ben visibile l’Isola Perim

Per tutte le navi che vogliono giungere a Suez, Bab-el-Mandeb è un passaggio obbligato. Una funzione di collegamento strategico tra Oceano Indiano e Mar Mediterraneo che ha fatto crescere, soprattutto dal XIX secolo in poi, l’importanza di queste acque. Addirittura nel 1799 l’Impero Britannico occupo l’Isola di Perim e vi costruì un faro per regolare il traffico commerciale.

 

Il faro di costruzione inglese sull’Isola di Perim

Si stima che nel 2018 circa 6,2 milioni di barili al giorno di greggio e prodotti raffinati attraversassero le acque di Bab-el-Mandeb. Un aumento del 21,5% rispetto a 4 anni prima. Dei flussi di petrolio che solcano il mare, circa il 10% passa per lo Stretto. Due terzi viaggiano in direzione mediterranea mentre un terzo va verso i mercati asiatici. La centralità di Bab-el-Mandeb nella comunicazione tra Europa e Asia ha costretto la Cina a includerlo nel suo progetto di Nuova Via della Seta Marittima. È fondamentale per l’approvvigionamento dell’oleodotto SUMED (Suez-Mediterranean Pipeline), che corre dal Mar Rosso fino ad Alessandria d’Egitto.

Il tracciato dell’Oleodotto SUMED, che costeggia le due maggiori città egizie

La situazione geopolitica, come pronosticabile per una località così strategica, è tutt’altro che tranquilla. Lo Stretto è adiacente allo Yemen, dove dal 2014 è in corso un sanguinosissimo conflitto tra le forze leali al governo di Hadi e il gruppo armato sciita degli Huthi. In più, la presenza militare degli Stati Uniti in quelle zone è tutt’altro che trascurabile. L’esercito a stelle e strisce è presente in 19 basi attorno al Corno d’Africa. Il Gibuti ne ospita sei, guadagnando 150 milioni di dollari annui per il servizio (il 3% del suo Pil). Ma il Paese africano alberga anche altre sette forze armate: francese, tedesca, cinese, giapponese, spagnola, inglese e italiana.

Insomma, un vero e proprio business in cui è imitata anche dalle vicine Eritrea e Somalia. La prima fa affari con l’Iran ma concede a Israele il controllo strategico delle Isole Dahlak, nelle vicinanze di Bab-el-Mandeb. La seconda, martoriata dal problema della pirateria al largo delle coste, ospita la base americana di Baledogle.

Stretto di Hormuz
La collocazione dello Stretto di Hormuz alla bocca del Golfo Persico lo rende uno dei chokepoint più importanti

Se già con il Canale di Suez si entra nelle acque torbide dei traffici mediorientali, con lo Stretto di Hormuz ci si immerge completamente. Compreso tra le coste di Oman e Iran, nel suo punto più stretto arriva a 39 chilometri di larghezza. Si può facilmente comprendere dal posizionamento il fatto che costituisca un’arteria centrale del traffico marittimo, essendo l’unico punto di accesso al Golfo Persico.

Il 22% delle basic commodities (cemento, minerali di ferro, cereali, ecc), il 25% del LNG e il 20% del greggio mondiale navigano queste acque. Si calcola che nelle ore di punta transiti una petroliera ogni sei minuti. Secondo il Center for Strategic and International Studies, dallo stretto escono circa 17 milioni di barili al giorno. Nel 2018 si è arrivati a 21 milioni di barili, per un valore giornaliero di 1,17 miliardi di dollari secondo il valore del greggio Brent di quell’anno.

Durante un pattugliamento, una nave da guerra iraniana si avvicina a una petroliera britannica nelle acque dello Stretto di Hormuz

Hormuz è vitale per il mercato asiatico, per il quale è responsabile dell’85% delle esportazioni di greggio. Quasi un quarto dei barili sono diretti verso i porti cinesi, andando a costituire addirittura il 38% dell’import di petrolio annuale del Paese. Ma ovviamente l’importanza si estende a tutto il mondo. Per questo, il chokepoint è punto di contesa tra Iran e Stati Uniti. Nel 1984, durante la Guerra Iran-Iraq, le milizie di Saddam Hussein iniziarono ad attaccare carichi iraniani presso l’Isola Kharg. La speranza – delusa – era quella di provocare una dura reazione che portasse alla chiusura dello Stretto e all’intervento diretto in loco di Washington. È la cosiddetta ‘Fase Tanker’ del conflitto.

Il Norman Atlantic, che sventolava bandiera di Singapore, dopo un attacco iraniano alle porte dello Stretto il 6 dicembre 1987 (Fonte: Getty Images)

Più di recente, tra il 2018 e il 2019 la Repubblica Islamica dell’Iran ha più volte minacciato di sbarrare il passaggio come ripicca per le sanzioni statunitensi imposte a Teheran. La delicatezza di queste acque è evidenziata anche dalla presenza nelle vicinanze di importanti basi americane. L’esercito a stelle e strisce dispone di circa 40mila soldati dislocati tra Bahrain, Kuwait, Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi Uniti. Strategia che permetterebbe un pronto intervento qualora la situazione lo richiedesse.

Stretto di Malacca
Lo Stretto di Malacca (evidenziato in bianco) che collega il Mar Cinese Meridionale e l’Oceano Indiano

Anche questo rientra nella categoria dei chokepoint naturali. Compreso tra l’isola indonesiana di Sumatra e la penisola della Malesia, è quella striscia d’acqua che collega lo Stretto di Singapore e il Mar Cinese Meridionale con l’Oceano Indiano. Nel suo punto più stretto misura solo 2,8 chilometri. In alcune sue parti, ha una profondità di soli 25 metri. Impedisce così il passaggio ad alcune petrolifere. Le dimensioni massime che una nave può avere per transitare lungo il punto di strozzatura sono definite Malaccamax. Chi non rispettasse questi parametri è costretto ad allungare il percorso di parecchie migliaia di chilometri, passando per lo Stretto di Lombok, uno dei chokepoint secondari. E i costi – si calcola – aumenterebbero di 80-220 miliardi di dollari all’anno.

Il congestionamento dello Stretto di Malacca, che permette di evitare percorsi più lunghi e dunque costosi alle navi da carico

È il collo di bottiglia più trafficato al mondo. Di qui passa oltre il 40% del commercio e un quarto del greggio globale: circa 100mila navi ogni anno. Tra queste, anche le navi da carico per l’export americano. E per l’import giapponese e coreano di petrolio e LNG. Gli Stati Uniti, grazie all’alleanza proficua con Singapore, hanno costruito nel 2004 la più grande base militare navale in Asia. Grazie alla Changi Naval Base, Washington riesce a monitorare da molto vicino i commerci e a disporre di un contingente armato a 24 ore di navigazione dal Golfo Persico. In più a Yokosuka, in Giappone, è presente stabilmente la Settima Flotta statunitense pronta ad intervenire in caso di emergenza.

Changi Naval Base - Wikipedia
Il porto militare della base statunitense di Changi, a Singapore

Lo Stretto di Malacca è altrettanto importante per Pechino. Addirittura l’80% delle importazioni cinesi di petrolio ed energia passano per questo collo di bottiglia, dopo essere partite dal Medio Oriente. L’ex presidente del Dragone Hu Jintao ha riassunto la dipendenza del Paese dallo Stretto con l’espressione ‘dilemma Malacca’. Un semplice binomio che sottolinea la vulnerabilità economica del colosso asiatico in caso di blocco. Anche perché entro il 2040 si stima che la Cina dovrà importare oltre i tre quarti del petrolio che utilizza. Un tema, quello della libera circolazione delle merci in questo chokepoint, che è sempre più attuale in una situazione di tensione tra Stati Uniti e Cina. Che avrebbe già pronto, lì nel Mare Cinese Meridionale, un casus belli come Taiwan.

Insomma, tutte le superpotenze hanno buon gioco a far rimanere in piedi questo punto di strozzatura. E finché gli interessi di Washington e Pechino saranno sovrapposti, sembra lontana la prospettiva di un blocco dello stretto. Gli unici rischi a Malacca rimangono la pirateria, l’eccessivo traffico che porta a congestionamento dello stretto e i danni ambientali, come gli incendi boschivi che riducono la visibilità delle imbarcazioni.

Stretto di Bering
Lo Stretto di Bering, chiuso tra Russia e Stati Uniti

Con lo scioglimento dei ghiacci, non si stanno solo liberando le risorse di petrolio e gas finora rimaste intrappolate. Ma si stanno anche aprendo le rotte a nord della Siberia, progressivamente più percorribili. Che queste siano destinate a essere sempre più trafficate lo dice un semplice dato: sono tratte che ridurrebbero di almeno due settimane la navigazione di molte tratte. Lo Stretto di Bering è il cancello di ingresso privilegiato, essendo l’unica linea di comunicazione marittima tra l’Oceano Pacifico e il Mar Glaciale Artico. Chiuso tra la Penisola Chukchi in Russia e la Penisola Seward in Alaska e largo 82 chilometri nel punto più stretto, sarà presto il chokepoint più conteso.

Una nave porta container mentre naviga le acque ghiacciate dello Stretto di Bering

Per ora la parte russa dello Stretto è controllata rigidamente da Mosca. Sulla costa è presente una zona militare chiusa e il passaggio è permesso solo alle imbarcazioni dotate di un permesso specifico. La Cina ha già espresso il desiderio di aprire le acque di Bering alla libera circolazione di merci. Per farlo bisognerà attendere l’approvazione del Consiglio Artico, un forum intergovernativo formato da otto Stati membri (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Stati Uniti e Svezia). L’unico non facente parte dell’Alleanza Atlantica è proprio la Russia.

Prima di firmare la Dichiarazione di Ottawa nel 2017, è stata aggiunta una nota a piè di pagina in cui si affermava che «il Consiglio Artico non dovrebbe occuparsi di questioni relative alla sicurezza militare». Nel 2019, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha invece dichiarato che le circostanze ormai erano cambiate. «La regione è diventata un’arena di potere e di competizione. E gli otto Stati artici devono adattarsi a questo nuovo futuro».

Is the Arctic Council a Paper Polar Bear?
Una riunione tra i vari membri del Consiglio Artico

Il Canada ha chiesto il pieno controllo del Passaggio a Nordovest, che collega l’Atlantico con il Pacifico passando tra vari arcipelaghi. La Russia, invece, chiede che tutti i mercantili che passano entro la Zona Economica Esclusiva russo-artica siano sottoposti all’Articolo 234 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare. Questo garantirebbe a Mosca un maggior controllo su tutto ciò che passa nelle acque antistanti alle sue coste. Ma l’impressione è che si stia aprendo per gli interessi economici una sorta di ‘guerra fredda’. O meglio, artica.

No Comments Yet

Leave a Reply