L’8 marzo si celebra la Festa della Donna. Storie di soprusi, violenze fisiche e verbali: la ricorrenza nasce per ricordare le lotte sociali e politiche che le donne hanno portato avanti per far ascoltare la loro voce. La strada, però, è ancora lunga: in molti Paesi i diritti vengono loro ancora negati, e denunciare stupri o violenze è ancora un tabù.
Ucraina: una guerra dentro e fuori le mura di casa
A poco più di un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, sono sempre più le segnalazioni di presunti crimini di guerra, compresa la violenza sessuale contro le donne. Il conflitto non ha oscurato i problemi già presenti in un contesto sociale che, secondo molti, non riserva le stesse possibilità a uomini e donne.
Le testimonianze arrivano dalle protagoniste: con il tasso di disoccupazione crescente e l‘arruolamento degli uomini, le donne riferiscono di essersi approcciate a diversi tipi di lavori per compensare la perdita di reddito. Altre, invece, hanno deciso di dedicarsi completamente al sostegno pratico e psicologico dei figli. Ma, se da un lato decidere di restare a casa è un atto di coraggio, dall’altro si è registrato un aumento del livello di violenza domestica e psicologica. Senza contare gli abusi ricevuti dai soldati russi, soprattutto nei primi mesi del conflitto.
Afghanistan: Nadim vieta l’università alle studentesse
In Afghanistan la negazione dei diritti delle donne riguarda soprattutto la mancata possibilità di studio. Lo scorso 20 dicembre, infatti, l’Emirato islamico ha annunciato la sospensione dell’accesso all’università per le studentesse. Il documento è a firma di Neda Mohammad Nadim, Ministro dell’Istruzione ed esponente del ramo radicale dei Talebani. Nadim aveva più volte criticato i costumi troppo disinvolti della capitale afghana, chiedendo maggiore severità dalle autorità. Dopo la decisione, a Kabul centinaia di ragazzi e ragazze sono scesi in piazza per esprimere il loro dissenso.
Giappone: una violenza silenziosa
Contrariamente a quanto si pensi, in Giappone la violenza fisica, verbale e psicologica nei confronti delle donne è un problema non indifferente. A far rumore, più che casi segnalati, sono le mancate condanne. Denunciare è considerato un tabù, un affronto alla consolidata egemonia maschile. Il sistema giudiziario giapponese scoraggia una presa di posizione delle vittime, poiché troppo spesso è risultato indulgente nei confronti di chi commette reati simili.
Il Giappone è, dopo la Corea, il secondo Paese ad avere il gender gap più elevato. Il tasso di occupazione mostra una differenza sostanziale tra uomini e donne. Senza contare il contesto universitario: nel 2018 divenne celebre il caso della Tokyo Medical University, in cui vennero riscontrate discrepanze nella correzione dei test di ingresso all’università al fine di ammettere più uomini che donne.
Stati Uniti: il passo indietro sull’aborto
Gli Stati Uniti, comunemente considerati tra i Paesi più moderni del mondo occidentale, sono diventati teatro di numerose proteste. La causa è stata la decisione del 24 giugno 2022, con la quale la Corte Suprema ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade sul diritto all’aborto. Nel 1973 il verdetto aveva permesso per la prima volta a Norma McCorvey di procedere all’interruzione di gravidanza.
Dagli anni ‘70 negli Stati Uniti sono stati praticati circa 63 milioni e mezzo di interruzioni volontarie di gravidanza. Dopo la sentenza del 24 giugno, le donne che risiedono in Paesi dove l’aborto è vietato, sono state costrette a emigrare dove la procedura è rimasta legale e disponibile, oppure acquistare pillole abortive online, o assoggettarsi a un aborto illegale potenzialmente pericoloso.
Abortion supporters and opponents gathered outside of the U.S. Supreme Court, in celebration and in protest, after the nation's top court took the dramatic step of overturning Roe v. Wade https://t.co/oJwQ1f67ee pic.twitter.com/grE3vJVmCr
— Reuters (@Reuters) June 24, 2022
In diverse città americane donne e uomini continuano a scendere in piazza al grido di diversi slogan, tra cui «Not Your Body Not Your Choice» («Non è il tuo corpo, non è la tua scelta») e «We Trust Women, We Won’t Go Back» («Crediamo nelle donne, non arretreremo»).
Iran: le lotte in onore di Mahsa Amini
Jin, Jîyan, Azadî, è diventato il grido più diffuso nelle piazze iraniane, nei testi delle canzoni e sui social media. All’origine di questo motto ci sono le rivendicazioni femminili per le libertà, contro il controllo del corpo e contro l’imposizione dell’hijab. Dopo il caso di Mahsa Amini, la 22enne curda picchiata a morte dalla polizia morale di Teheran perché non indossava correttamente il velo islamico, le proteste per i diritti delle donne in Iran si sono allargate.
Nonostante la dura repressione da parte della teocrazia del Paese, con arresti, uccisioni e condanne a morte, le lotte contro il regime non si sono arrestate. Proprio come riporta l’iscrizione sulla lapide di Mahsa: «Name-to ramz mishavad, il tuo nome diventerà chiave», il suo nome è diventato il simbolo di un movimento di denuncia nei confronti di un regime che vìola costantemente le libertà di scelta, di espressione e i diritti delle donne e delle minoranze.
Brasile: aborto legale solo in caso di stupro
La disuguaglianza di genere in Brasile si concretizza in una bassa partecipazione femminile alla politica e ai processi decisionali, in un vasto divario salariale e in una scarsa garanzia dei diritti, come l’affidamento dei figli in caso di divorzio e l’emancipazione economica. Il dato più preoccupante riguarda però la violenza sulle donne: si tratta di un fenomeno molto diffuso che ha raggiunto l’apice nel 2017, con 1.2 milioni di casi di violenza domestica.
Nel Paese l’aborto è legale solo in caso di stupro, quando necessario per salvare la vita di una donna, o quando il feto soffre di anencefalia. Le donne che abortiscono clandestinamente rischiano lesioni, carcere, e perfino la morte. Le persone condannate per aver praticato aborti illegali, invece, rischiano fino a quattro anni.