Vinicio Marchioni: «Il cinema riscopra la lentezza»

«Non c’è qualcosa che preferisco fare. L’importante è comunicare sempre temi, storie e idee. Il cinema o il teatro non devono portare una morale, ma fare riflettere, spiazzare e muovere un pensiero nello spettatore…» ci racconta – via Zoom – Vinicio Marchioni, ospite speciale al Master di giornalismo IULM di Milano e in esclusiva per Master X.

Ripercorrendo la filmografia e le opere teatrali di Marchioni è difficile trovare qualcosa che non abbia fatto. A partire dal 1995, con l’esordio in teatro (“il primo grande amore”), dal quale l’attore romano non si è mai separato, nemmeno dopo aver cominciato a essere vero protagonista di cinema e serie Tv.

“Un attore o un’attrice, quando salgono sul palco, sono autori di quello che fanno. Credo che un attore o un’attrice si possano definire tali solo se fanno anche teatro. Non è per snobismo, ma perché solo in scena dal vivo gli attori portano sulle spalle il peso di uno spettacolo di due ore, in cui è sempre e solo «buona la prima»”.

Nel 2008, Stefano Sollima lo coinvolge nella serie Tv Romanzo Criminale, grazie alla quale l’attore trova la popolarità, interpretando il Freddo. Un ruolo che lo aiuta a farsi conoscere anche nel mondo del cinema. In quegli anni recita nel film 20 sigarette di Aureliano Amadei (Premio Biraghi ai Nastri d’Argento), Sulla strada di casa di Emiliano Corapi, Cavalli di Michele Rho e Drive Me Home di Simone Catania. Il percorso cinematografico di Marchioni ha un’ulteriore svolta con il regista Paolo Genovese. Il film Tutta colpa di Freud, per il quale costruisce una recitazione basata sui segni e sulla comunicazione del linguaggio del corpo, e The Place hanno infatti un grande successo di pubblico e critica.

Attualmente lo potete vedere coprotagonista insieme a Massimo Popolizio nel film Governance – Il prezzo del potere di Michael Zampino (su Amazon Prime Video), nel frattempo sta ultimando a Roma le riprese di Siccità di Paolo Virzì.

Sulla piattaforma streaming Nexo+, è visibile lo struggente Il terremoto di Vanja. Looking for Čechov, il primo film diretto da Marchioni.

L’idea del progetto nasce da una serie di spettacoli teatrali realizzati con la moglie, l’attrice Milena Mancini. Il film racconta le prove e le esibizioni tratte dalla messa in scena dal dramma Zio Vanja dell’autore russo Anton Čechov, intrecciando il dietro le quinte con le immagini della provincia dell’Aquila, distrutta dal terremoto del 2008. Un’opera di profonda umanità, manifesto del pensiero del suo regista: “Cerco sempre di ricollegare il cinema a un fatto umano, e penso che i più giovani, tra attori e pubblico, stiano cercando di riscoprirne la lentezza. È una necessità umana, dovuta alla velocità con cui, negli ultimi dieci anni, tutto si è accelerato. Pure troppo…”.

Vinicio Marchioni
Foto: Facebook Vinicio Marchioni

In un’intervista ha dichiarato che il lavoro dell’attore si fa in solitudine. È uscito recentemente Il terremoto di Vanja, in cui è sia regista sia attore. Quanto ha avuto bisogno di restare solo e quanto insieme ai suoi compagni di viaggio, durante la lavorazione di quel film?

«Ci sono vari momenti. Un attore lavora in solitudine quando è a tu per tu con il copione, con l’autore o con la sceneggiatura. Nell’interpretazione sei veramente solo con le tue scelte. Lo studio su Čechov è durato quasi sei anni, mentre lavoravo ad altri film e spettacoli e mentre la vita andava avanti. La sera mi ritrovavo a dialogare con l’autore, cercando la maniera migliore di comunicarlo, attraverso lo spettacolo teatrale che volevo portare in scena. Come regista devi essere in grado di mettere da parte questa fase di laboratorio e portarla al pubblico, attraverso altre persone, in questo caso gli attori. Arriva quindi il momento in cui c’è bisogno della squadra, di avere persone insieme alle quali veicolare un obiettivo, un immaginario, un mondo».

Anche nella sua esperienza da regista, il teatro resta una presenza molto forte. Cosa ricorda delle prime volte in cui ha calcato le scene?

«La prima volta sul palcoscenico non è come ce la si potrebbe aspettare. Il mio è un ricordo di paura, insicurezza e perfino terrore. Era il primo saggio di fine anno della scuola di recitazione e il pubblico, per colpa del traffico romano, è arrivato con 45 minuti di ritardo. Io ero fra gli attori in scena e dovevamo aprire lo spettacolo a testa in giù, con il petto sulle ginocchia. Abbiamo atteso così per tutto il tempo… Quando lo spettacolo è iniziato, mi sono alzato in piedi troppo velocemente. Non so se mi sia finito troppo ossigeno nel cervello, fatto sta che sono andato in shock, sbagliando qualsiasi cosa… Ancora oggi, prima di mettere piede sul palcoscenico, mi faccio il segno della croce.».

Qual è stata la prima lezione davvero importante della sua carriera?

«Prima di iscrivermi all’accademia di recitazione ho frequentato l’Università. Durante il corso di Storia del teatro, il professore iniziò a scrivere le parole di una frase sulla lavagna. Prima ha scritto “Il topo”, poi ha proseguito con “Il topo mangia”, sottolineando come già dal verbo potessimo intuire in che modo l’azione si sarebbe conclusa, ad esempio, con “il topo mangia il formaggio”. Se però, ha spiegato, scrivessi “Il topo mangia l’acciaio”, penserete che abbia fatto un errore o che il topo ha dei superpoteri e quindi una storia particolare da raccontare… Quella frase me la sono portata dietro per tutta la carriera, sia da attore sia da regista, come monito di quanto sia importante saper spiazzare il pubblico».

Oltre a Čechov, ha portato in scena Dino Campana. Cosa rende quel poeta così attuale, specie durante la pandemia?

«Quello spettacolo nasce più di dieci anni fa. È il primo che ho scritto da regista. Con la pandemia, quel testo è stato fondamentale, perché mi ha insegnato la solitudine e quanto una necessità espressiva sia più forte di qualsiasi cosa. Si dice che Campana abbia trascorso gli ultimi 14 anni di vita rinchiuso in un manicomio e allora mi sono chiesto, com’è possibile per un uomo sopravvivere a se stesso per tutto quel tempo? Questa domanda mi ha dato la possibilità di rivivere e raccontare sul palco tutta la sua vita».

Oggi, però, i teatri sono chiusi (l’intervista è stata realizzata prima del nuovo DPCM, ndr) e in parte si sono trasferiti online. Cosa rimarrà in futuro di questa modalità ibrida?

«Il teatro sopravvivrà. Di certo lo si fa dal vivo, ma il fatto di poter dialogare in streaming ha molte potenzialità. Se in Italia ci sbrigassimo, ci potremmo riallineare con l’Europa, dove siamo indietro di 20 o 30 anni. L’app del National Theatre di Londra permette di vedere gli spettacoli ovunque, già da molto tempo prima delle chiusure a causa del Covid. In Italia, invece, nessuno ha mai ragionato su come inventare una regìa per gli spettacoli adatta a un pubblico che li guarda da casa».

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Foto: Facebook Vinicio Marchioni

In occasione dell’uscita di un suo cortometraggio, La Ripartenza, ha dichiarato che si trattava di un omaggio alla cinematografia degli albori, mentre oggi siamo abituati a produzioni rapide e all’iper-comunicazione. Crede che il cinema abbia bisogno di “rallentare”, proprio nell’epoca di Netflix?

«Il cinema è un’arte giovane, ha 120 anni, ed è sempre stata collegata a un mezzo tecnico e alle sue evoluzioni. Cerco comunque di ricollegare sempre il cinema a un fatto umano, e penso che i più giovani, tra attori e pubblico, stiano cercando di riscoprirne la lentezza. È una necessità umana. Negli ultimi dieci anni tutto si è accelerato all’eccesso… Mi auguro che si ritorni ad apprezzare una carrellata lenta, senza per forza avere 500 stacchi di montaggio in 30 secondi».

A proposito del film L’uomo nel labirinto, con Dustin Hoffman e Toni Servillo, ha detto di aver girato anche in Italia il cinema “con la C maiuscola”. In questo periodo è impegnato con Siccità di Paolo Virzì. Qual è lo stato dell’arte nel nostro Paese?

«Definisco cinema “con la C maiuscola” ogni film in cui si raccontano storie, cercando di elevarle a racconti universali, che trasportino il pubblico in una dimensione diversa dall’ordinario. Virzì è uno dei più grandi registi italiani e mondiali, ma in Italia ne abbiamo tanti: Salvatores, Garrone, Tornatore, Bellocchio. Michele Alhaique, se gli offriranno la possibilità, ci darà molte soddisfazioni. Il cinema con la C maiuscola si fa quando un regista ha una visione e la può mostrare al pubblico».

Ha da poco terminato le riprese di Ghiaccio, il primo film diretto dal cantautore Fabrizio Moro in coregia con Alessio De Leonardis, in cui interpreta un pugile…

«Sono un appassionato di boxe ed entrare nel vivo di quell’ambiente è stato meraviglioso. Ho avuto l’onore di prepararmi per quattro mesi con Giovanni De Carolis, ex campione del mondo dei pesi supermedi WBA. La boxe è una disciplina stupenda che ti insegna il sacrificio, il sudore e le cose semplici ripetute milioni di volte, fino ad arrivare a dare il “pugno perfetto”. È una metafora per qualsiasi obiettivo vogliamo raggiungere nella vita».

In Tutta colpa di Freud ha interpretato un ladro sordomuto. Come si è preparato per quel ruolo?

«Per un attore, esprimersi solo con gli occhi credo sia la cosa più bella del mondo. Sono cresciuto con una formazione che mi ha insegnato a esprimermi prima con il corpo e con gli occhi, poi con la parola. Mi sono preparato studiando e convivendo con un sordomuto per un mese, comprendendo meglio i disagi che questo handicap comporta. Avere l’opportunità per due mesi di tacere e ascoltare solamente, invece, è stato meraviglioso».

In questo caso, il rapporto con il regista è fondamentale…

«Essere guidato da un regista come Paolo Genovese è stata un’altra grande fortuna. Paolo ha una sensibilità eccezionale, scrive le sue storie e quindi ha molto chiare le dinamiche dei personaggi. Con lui abbiamo costruito una regia sui segni e sulla comunicazione. Insieme abbiamo cercato di fare in modo che il mio personaggio comunicasse con il corpo, lo sguardo, i gesti. Se ero di spalle, di tre quarti o frontale cambiava tutto».

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Foto: Facebook Vinicio Marchioni

A distanza di anni, fra tutti i suoi ruoli, quello del Freddo in Romanzo Criminale resta il più celebre. È un vantaggio o uno svantaggio, per un attore, essere associato in modo così forte a un personaggio?

«Dipende da come si evolve la carriera. Se come attore, grazie a quel personaggio, che ti ha dato la popolarità, hai l’opportunità di fare cose nuove, è un vantaggio. Da un lato, per gli ascolti che la serie fa ancora, dopo oltre dieci anni, il Freddo è un’assicurazione sulla vita. Dall’altro, è una sfida, perché ti obbliga a impegnarti per andare oltre quel personaggio e fare sempre meglio. In ogni caso, per un attore avere un ruolo per il quale si verrà ricordati dopo la morte, è la prova di essere riuscito a lasciare un segno, anche piccolo, nella vita delle persone».

Francesco Puggioni

Marchigiano, 23 anni. Mi sono laureato in Scienze Politiche Sociali e Internazionali all’Alma Mater di Bologna, dove ho lasciato un pezzo di cuore. Ora a Milano, al Master in Giornalismo IULM. Coltivo da sempre le mie più grandi passioni: la scrittura e la musica. Collaboro con StartupItalia, scrivo per MasterX e per il sito multiTasca.

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