Stefano Disegni: «Il panico del foglio bianco ce l’ho addosso da quando ho cominciato»

I vecchi cinema di periferia e la cultura romana della battuta: ecco cosa ispira l’“Ammazzafilm” Stefano Disegni. Il celebre disegnatore racconta se stesso e la sua arte agli studenti del Master in giornalismo dell’Università IULM di Milano

Una libreria colorata alle spalle e un maglione informale. Stefano Disegni, disegnatore, vignettista, autore televisivo e anche musicista, si presenta così all’incontro – via Teams – con gli studenti del Master in giornalismo dell’Università IULM di Milano. E mentre si elencano le numerose attività della sua carriera, agita le mani in segno di esagerazione e azzarda in romanesco: «Ammazza, ma tutte ‘ste cose ho fatto?!».

Stefano Disegni è stato il primo in Italia a realizzare recensioni cinematografiche a fumetti, dopo essersene innamorato a 15 anni, leggendole su una rivista americana (il giornale di culto, Mad). Oggi è tra i più famosi disegnatori e autori satirici italiani e collabora con numerose testate, dal Corriere della Sera al Fatto Quotidiano (in passato anche con Il Riformista, il Manifesto e molti altri giornali).

Ma è sul mensile Ciak e Ciak in Mostra (il quotidiano di Ciak alla Mostra del cinema di Venezia), che spopolano le sue recensioni satiriche a fumetti. Disegni rappresenta e commenta in modo dissacrante le novità cinematografiche e perfino i grandi cult. È così che si è guadagnato l’appellativo tranchant di “Ammazzafilm“.

Da sempre il cinema rappresenta uno dei punti chiave, forse il più appassionato, della sua carriera artistica. Disegni ci racconta in modo emozionato quanto le sale dei vecchi cinema della periferia romana lo abbiano ispirato. Il vociare disincantato dei romani che commentavano i film in diretta sulle poltroncine rosse lo spinge a trasformare questa passione in qualcosa in più. E al buio, con penna e blocchetto, comincia ad appuntare tutte le cose che non voleva perdersi del film, per poi disegnarle e trasformarle in satira.

Con l’umorista Massimo Caviglia crea alcune delle sue migliori creature, personaggi destabilizzanti ed eccentrici, come lo Scrondo, e altri figuri bislacchi per i programmi tv Matrjoska e L’araba fenice, che non erano altro che la caricatura di chi si aggirava per le strade di Roma, dal “pischelletto” alle signore di quartiere. Con Caviglia fu autore del settimanale satirico Cuore e anche del fumetto multimediale Razzi Amari, un graphic novel con musicassetta allegata da ascoltare durante la lettura.

C’è chi dice che Stefano Disegni riesca a provocare invidia nei critici perché può stroncare tutti i film che vuole. Ma si sa, attori, registi ma anche i direttori di festival sono molto sensibili ai giudizi: qualcuno ha avuto da ridire su qualche sua stroncatura?

Il mondo artistico è molto più suscettibile del mondo della politica: i politici hanno lo stomaco foderato di un metro e mezzo di pelo di cinghiale. Un paio di vignette li fanno sentire importanti. Qualcuno addirittura a volte chiede: «A me non mi disegni mai?». I personaggi dello spettacolo invece sono molto più sensibili. Alcuni, come il direttore Alberto Barbera, sanno stare al gioco. Quando lo disegnai con le mani in tasca in maniera scaramantica, in occasione della Mostra del Cinema di Venezia 2020 (svoltasi in pieno Covid, nda), si fece una gran risata. Altri non sanno stare al gioco. Gli attori, ad esempio, sono creature sensibilissime. Una delle reazioni che meglio ricordo è quella di un attore che tempo fa mi fermò in un angolo dei corridoi Rai e mi disse: «Guarda! – abbassando la testa – Vedi? Io i capelli li ho e tu me ne hai disegnati pochi!». Pensai fosse pazzo, anche perché si trattava chiaramente di un trapianto…

Lei ha lavorato anche con il maestro Gigi Proietti, che ricordo ha di lui?

Uno dei migliori ricordi che ho di lui è che sapeva davvero mettere tutti a proprio agio. Vi racconto un aneddoto: era il 2017, mi chiamano per andare a fare la prima riunione autoriale nell’ufficio di Proietti. Lo vedo, girato di schiena, seduto con altri autori. Mi prende una grande strizza. Mi ripeto tra me e me: «Ma adesso come entro, che faccio? Dai, vado lì e gli dico “Maestro!”. No dai, “Maestro” è brutto, è retorico… e poi comunque io sono Stefano Disegni, qualcosa ho fatto anche io, se m’ha chiamato vorrà dire che hanno bisogno di me. Vabbè io entro e basta». Entro, Proietti si gira e mi fa: «Che sei Disegni, te? A Ste’, mettete qui che noi non sapemo manco come cazzo fallo ‘sto programma!».

Entro, Proietti si gira e mi fa: «Che sei Disegni te? A Ste’, mettete qui che noi non sapemo manco come cazzo fallo ‘sto programma!»

Dopo cinque minuti non era più Gigi Proietti, il “Maestro”. Era un amico con cui potevi chiacchierare. Come se ci conoscessimo da una vita. Era uno di noi. Facevamo spesso le due di notte a raccontarci le barzellette. Ne ho conosciuti pochi come lui, davvero.

Com’è nata l’idea di fare delle recensioni sotto forma di fumetti? Crede che questa forma sia più efficace rispetto alla forma scritta, più tradizionale?

Con grande onestà intellettuale inizio dicendo che non l’ho inventata io la forma della recensione a fumetti. Io me ne sono innamorato. L’ho vista da ragazzino su un giornale americano, Mad, che faceva satira di film, distorcendone le battute. Aveva disegnatori formidabili. Io avevo appena 15 anni. Un’altra forma che ho sperimentato è le satira dei film in televisione. Io e Massimo Caviglia conducevamo un programma di parodie che si chiamava Lupo Solitario. Del film sfruttavamo solo il titolo, su cui costruivamo delle storie. Ad esempio Tarzan fa il signore con le scimmie, in cui c’era Tarzan che pagava da bere a tutte le scimmie della giungla. È così che ci ha scoperti il mensile di cinema Ciak. Credo che la satira disegnata “arrivi” prima perché è più divertente, più giocosa. Ma non è meno satira e non è meno recensione seria di quello che scrive un altro critico.

C’è una tavola cinematografica a cui è più affezionato?

Quella su Mediterraneo mi divertì particolarmente. Era un premio Oscar dato a un film che francamente considero solo discreto. Inventai una roba che in quel caso funzionò moltissimo. Disegnai un gatto morto in testa all’attore Giuseppe Cederna. Perché? I parrucchieri di quel film non avevano lavorato molto bene e si vedeva che la sua parrucca era fintissima. E quindi feci ’sto gatto morto sdraiato sopra al suo capo. Fu un trionfo.

Una curiosità sullo Scrondo, uno dei suoi personaggi più famosi. A cosa è dovuto il suo successo? Com’è nato?

Lo Scrondo è personaggio sgradevole, particolarmente delinquenziale. Nacque in un pomeriggio di caldo a Roma, a luglio. Lavoravo in un’agenzia di pubblicità per arrotondare, perché coi fumetti non si compravano le motociclette… Stavo scarabocchiando e quel personaggio è uscito subito così com’era. Poi ho cominciato a guardarlo e ho pensato: “e

Stefano Disegni e il suo personaggio “Scrondo”

come i titoli di tanti western italiani – insieme a qualcosa che fosse brutto, scorretto, un po’ greve: a voi lascio immaginare da quale parola derivi “scro-“… mo’ come lo chiamo?”. Mi era piaciuta questa cosa di mescolare una desinenza “-ndo” –

Debuttò sul giornale di musica rock Tuttifrutti con il titolo: «Adottate uno Scrondo!». E descrivevo il personaggio: «non fa niente dalla mattina alla sera. Beve solo birra, sente musica punk, non si lava». Non sapete quante lettere sono arrivate, soprattutto di ragazzini che volevano davvero adottare uno Scrondo. Da qui nacquero, con Caviglia, le avventure dello Scrondo, che arrivarono fino ad Antonio Ricci, che nel 1988, stava lavorando al programma tv L’araba fenice.

Quando guarda un film che deve recensire, da cos’è che si fa colpire? Quali sono gli elementi sui quali si sofferma?

C’è stato un periodo in cui io andavo al cinema con un blocchetto e una penna, per appuntare quello che mi colpiva. Ma quando si spegneva la luce, non vedevo più la pagina su cui stavo scrivendo e le parole finivano una sopra all’altra.

La prima cosa che guardo è la sceneggiatura: se sta in piedi, se non è banale, se non c’è roba già vista mille volte o se spinge troppo sull’acceleratore del “romanticismo d’accatto”. Poi gli attori. Sono all’altezza? Stanno recitando bene? Poi, per esempio, mi piace far parlare la voce fuori campo, una voce nel fumetto che viene “da fuori” e fa dei commentini… È un’“eredità” di quando da ragazzi andavamo al cinema a Roma. In questi cinema di periferia le persone intervenivano durante il film e facevano commenti tipo «Sì, vabbe’!» e l’altro, da dietro: «Se pò fa’, se pò fa’!».

È un’eredità di quando da ragazzi andavamo al cinema a Roma. In questi cinema di periferia le persone intervenivano durante il film e facevano commenti tipo «Sì, vabbè!» e l’altro, da dietro: «Se pò fa’, se pò fa’!»

Quanto spesso le capita di prendere idee dal quotidiano?

Una delle cose più importanti per chi fa questo mestiere su cinema, in televisione e su carta, è guardarsi bene intorno, vivere nel mondo in cui sei, guardare il carattere delle persone, i tic, le comicità. Il mondo, se lo guardi con un certo occhio, è molto comico. Fornisce spunti ogni giorno. I personaggi che disegno sono tutti presi dalla realtà: le signore al mercato, il giovane hipster, le influencer…

Una curiosità sulla sua Roma. In che modo questa città l’ha influenzata nella satira? Come l’ha vista cambiare negli anni?

Roma è una città particolare, il suo miglior pregio è anche il suo miglior difetto. Roma è capace di vivere in modo fatalista: questo ti porta a ironizzare sull’esistenza e fare battute che altrove non ho sentito. È un tipo di comicità che può piacere e non piacere… Io non sopporto la comicità romana compiaciuta di essere “romana”. Quella de: «Ao’, semo simpatici perché semo de Roma!». Getta discredito… Un certo fatalismo ironico romano ha invece la capacità di destrutturare qualcosa che sembra enormemente grave. Questo lo trovo pregevole.

Io non sopporto la comicità romana compiaciuta di essere “romana”. Quella de: «Ao’, semo simpatici perché  semo de Roma!». Getta discredito… Un certo fatalismo ironico romano ha invece la capacità di destrutturare qualcosa che sembra enormemente grave…

Dall’altro lato è anche la parte negativa di Roma: è un atteggiamento di rinuncia e deresponsabilizzazione rispetto a quello che accade.  “Vabbè tiramo a campà”, no, il mondo non lo tiri a “campà”… Il mondo e i suoi problemi li devi “padroneggiare”. In ogni caso, mi ha sempre influenzato parecchio. A Roma c’è una cultura surreale della battuta. Oggi di questo umorismo nell’aria ce n’è meno, la città è più fredda, più nervosa. Le nuove generazioni hanno perso un po’ questo gusto della battuta.

L’ambiente romano è ritenuto uno dei più “permalosi”. A partire dal re della città, Francesco Totti. Quando ha creato la satira di “Tottigò”, come la prese il calciatore?

Ero nel gruppo di Convenscion, un programma comico su Raidue. Tottigò nacque perché il regista Celeste Laudisio mi chiese un personaggio nuovo, e visto che io sono molto laziale, presi di mira il linguaggio di Totti, che durante le interviste faceva spesso a cazzotti con l’italiano e il congiuntivo. Ho pensato: la caricatura c’è tutta. Lo satireggiavo in maniera positiva però, in un episodio addirittura salvava il pianeta terra dagli alieni. Quando gli chiesero cosa ne pensasse lui rispose: «non mi sta bene perché mi fanno sembrare un coatto!». I satirici, che sono delle belve, per dirla come diciamo noi a Pordenone: «ci azzuppano er pane su ‘ste cose!». Si è incavolato quindi ancora di più e si scatenò l’orgoglio di bandiera, per cui «er capitano nun se tocca!»…

La città è una protagonista centrale del suo lavoro. Però nel ‘96 è uscita quella che è la sua hit musicale più famosa, La vita in campagna con gli Ultracorpi. Cantava: «Ammazza che lagna la vita qua in campagna, ammazza che lagna tutta ‘sta contemplazione». Sono passati diversi anni: la pensa ancora così?

La penso esattamente nello stesso modo. Quella canzone la scrissi quando nacque mio figlio d’estate, a luglio. Io ero abituato a trascorrere le vacanze in motocicletta, saltando da un’isola greca all’altra, con quattro libri e un costume da bagno. Quell’estate finimmo in un posto in campagna, tranquillo, in cui poter cominciare a gestire questa nuova situazione. Il posto era bellissimo, ma non c’era assolutamente niente da fare se non cambiare le fasce al pupo. Non era per me. Così, per ridere, scrissi quella canzone. La campagna è meravigliosa, ma l’importante è tornare in città, dopo. A ventisette anni da allora sono ancora convinto di questo.

La sua abilità creativa, il suo estro si formano in un’Italia in cui lo stimolo alla contestazione era forte, con un potere visibile al quale opporsi. Oggi, al contrario, quel potere sembra un po’ meno visibile e “liquido”. Quanto ne risente la creatività come arma di emancipazione?

Appartengo a una generazione venuta fuori in un mondo molto repressivo, negli anni Settanta e Ottanta. Il nemico era concreto, era riconoscibile nelle forme, nei linguaggi e nell’agire fisico. Oggi è più difficile, è più sottile, più “raffinato”. Adesso il condizionamento sociale passa per i media e non per la polizia che viene a prenderti per strada. Il panico del foglio bianco ce l’ho addosso praticamente da quando ho cominciato. Prima era più facile riempirlo, adesso butto via più fogli di quanti ne buttavo prima. Per arrivare a un’idea che sia convincente, che sia sviluppabile per una storia intera, ho più difficoltà.

Il panico del foglio bianco ce l’ho addosso praticamente da quando ho cominciato. Prima era più facile riempirlo, adesso butto via più fogli di quanti ne buttavo prima. Per arrivare a un’idea che sia convincente, che sia sviluppabile per una storia intera, ho più difficoltà.

Perciò secondo lei c’è meno futuro per una creatività, per una contestazione creativa in questo senso?

No, questo non è possibile. Io dico sempre che la satira c’è dai tempi di Tito Maccio Plauto. Ci sarà sempre uno slancio umoristico e critico. Sta nella capacità degli autori raccontare il mondo satiricamente. Sono convinto che ne continueranno a nascere. Un esempio? Zerocalcare è nato “adesso”. È giovane, ma ha saputo esprimere una capacità originale, tutta sua, di raccontare il mondo.

Lei fa satira da molto tempo e bigotti e moralisti ci sono sempre stati, però è evidente che negli ultimi anni il politicamente corretto ha preso molto piede. Riscontra un cambiamento nel suo lavoro?

C’è stata un’ondata di politicamente corretto davvero faticosissima anche se sono convinto che la satira si faccia sulla malafede, sull’arroganza, sulla prepotenza, la disonestà, tutte cose di cui l’individuo è responsabile. Se uno sta male o ha un difetto fisico, io non la faccio. Io la scorrettezza la vedo nel satireggiare qualcosa che non è evitabile dell’individuo. Il satirico deve essere responsabile di quello che dice. La gratuità la trovo la cosa più scorretta che ci possa essere. Nell’ambiente del cinema, più o meno, tutto è rimasto com’è sempre stato. Mi hanno soprannominato l’“Ammazzafilm”, perché stronco tanto, ma penso veramente che certi film vadano “ammazzati”. Credo che alcuni film siano pericolosi per la qualità culturale di un paese. Il cinema e le serie hanno una grande responsabilità, perché diffondono linguaggi e comportamenti.

 

Viola Francini

Di sangue toscano, vivo a Milano da 4 anni e sogno il giornalismo da quando ne avevo 9. Innamorata dell’arte in tutte le sue forme, guardo il mondo con il filtro della poesia sugli occhi. Mi piace raccontare la cultura, quella che parla di società e realtà umane. Laureata in Linguaggi dei Media all'Università Cattolica, ho collaborato con la redazione NewsMediaset e scrivo per MasterX come giornalista praticante.

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