Il 17 dicembre di 30 anni fa 5 personaggi destinati a far storia si sedevano per la prima volta davanti a un televisore. Homer, Marge, Bart, Lisa e Maggie Simpson, creature di Matt Groening, Sam Simon e James L. Brooks, arrivarono per scardinare l’idea stessa di cartone animato e finirono per essere osannati in tutto il mondo.
Con 672 episodi all’attivo, The Simpsons si è meritata il titolo di serie animata più longeva. Non aspettò molto tempo prima di mostrare le sue enormi potenzialità: l’amore del pubblico scattò già nel primo biennio 1989-90. Prima dei Simpson nessuno scripted show era stato seguito da milioni di persone ogni settimana in prima serata. Impressionante, se pensiamo che il presidente George Bush solo qualche anno dopo l’uscita la etichettò come esempio negativo per la famiglia americana.
Homer, l’antieroe perfetto
I Simpson non sono nati per essere una famiglia dissacrante qualsiasi, ma come critica della rappresentazione conservatrice di famiglie del ceto medio, residente nei sobborghi e patriarcali.
I palinsesti statunitensi erano fino ad allora inondati da padri di famiglia modello, giudiziosi e quasi sempre assennati. Basti pensare a Jim Anderson e Cliff Robinson, perfetti esponenti di questa categoria e capaci di garantire una buona stabilità economica, nonostante la famiglia numerosa.
Homer è esattamente l’opposto. E’ squattrinato e ha scarse capacità genitoriali. La televisione lo distrae in continuazione da eventuali conversazioni con la moglie e i figli. Ha una grande, grandissima passione per la birra, la Duff, avvicinandosi pericolosamente all’alcolismo. «Preferisco bere una birra che diventare padre dell’anno». Homer è guidato dall’impulso, è un capitan caos – come definito nel libro “I Simpson. Trent’anni di un mito”.
Nonostante questo è il più americano di tutti gli altri padri di famiglia delle sitcom. Un americano puro, chiassoso, rozzo, tanto sicuro di sé quanto certo che nulla sia davvero colpa sua, ma benintenzionato e spesso amabile allo stesso tempo. È quello che si definirebbe un antieroe contemporaneo che è riuscito a dar voce alla mentalità indolente della Generazione X.
Matt Groening, attraverso Homer e tutti i personaggi della sua serie, vuole lasciare un messaggio preciso: «non sempre le autorità morali hanno a cuore i vostri interessi». A partire dagli insegnanti, presidi, ecclesiastici, politici. Tutti, nessun escluso.
O almeno, questa è stata l’aspirazione della serie prima che le sue intenzioni si disperdessero col passare del tempo e delle stagioni.
Simpson uguale satira
Ci sono i Simpson, quelli veri degli anni ’90 e poi c’è il resto. Che non esclude di certo la presenza di perle e puntate all’altezza del loro nome.
I Simpson delle prime otto stagioni – dieci al massimo – sono stati però un unicum, un’esplosione di novità dissacranti che in un colpo solo hanno messo a segno una serie di obiettivi fino ad allora impensabili.
Sì, perché demolire con la satira ad uno ad uno gli standard della famiglia a stelle e strisce, e soprattutto farlo con un cartone animato, era rivoluzione.
Nell’ ’89 il muro era caduto, l’american way of life ha vinto. Le serie TV, si è già detto, lo omaggiavano tutte – si pensi a Diff’erent Strokes, Alf e Family Ties. Tutte tranne appunto l’appena comparsa famiglia di Springfield.
Ma si sa, i cartoni animati sono anche, se non soprattutto, intrattenimento. E i Simpson non hanno fatto eccezione, se non fosse che anche questa componente era funzionale al progetto di satira spietata e quanto più diffusa possibile.
Quando il 17 dicembre di quel 1989 la prima puntata andava in onda, tre erano le menti e le idee principali della rivoluzione animata con sede al 742 di Evergreen Terrace.
Matt Groening, autore principale e portatore di quel sentore di ribellione e critica per le autorità e le istituzioni insite nella serie. Temi che lo stesso Groening aveva già affrontato prima nel suo fumetto Life in Hell, sebbene in toni più cupi e autodistruttivi.
Sam Simon, autore e disegnatore che aiutò a far prendere vita alle geniali visioni di Groening. Simon mise in campo anche un’altra fondamentale caratteristica del cartone: la comicità fortemente incentrata sui personaggi e sulla loro profondità e coerenza. Scomparso pochi anni fa, fu egli stesso creatore di personaggi fondamentali come Mr. Burns.
Infine James L. Brooks, produttore e continua fucina di idee. Infatti, oltre a permettere la realizzazione della serie, Brooks spesso portava il suo apporto sullo sviluppo delle singole puntate e sui finali di stagione, premendo per spostare il focus anche sui personaggi femminili della famiglia, Lisa, Marge e talvolta Maggie. E spingendo affinché Homer e il resto della famiglia avessero un lato di umanità distintivo e riconoscibile. Non macchiette.
Insomma, una macchina quasi perfetta guidata da tre padri fondatori ed alimentata da una dozzina di altri scrittori che lavoravano senza sosta al funzionamento di ogni singola battuta dello show.
Ecco, questi erano i Simpson fino alla fine del secolo scorso. Un crogiolo di elementi divertenti e scomodi, un mix perfetto e inconfondibile che smontava pezzo su pezzo un modello sociale fino ad allora considerato vincente.
Erano controcultura pop talmente potente da permettersi di contrastare la cultura pop “ufficiale” occidentale.
L’inizio del declino, galeotta fu l’ottava stagione
Questo contributo resta ancora oggi e resterà sempre di un’importanza incalcolabile per lo sviluppo della satira televisiva e animata. Ed è un contributo lungo almeno otto stagioni. Difatti, proprio nell’ottava stagione, uno dei tre paradigmi veniva meno.
La puntata è la seconda, “Il direttore e il povero”. La trama è semplice: il preside Skinner non è il preside Skinner. Un uomo dichiara, a ragione, di essere il vero Seymour Skinner, commilitone in Vietnam dell’attuale preside di Springfield. Questi altro non è un soldato di discutibili valori, Armin Tamzarian, che una volta tornato in patria era stato scambiato dalla signora Skinner come suo figlio.
In altre parole, con una puntata era stato affossato il principio di Sam Simon – fuori dal progetto dal 1993 – della coerenza biografica e caratteriale dei personaggi, della loro profondità psicologica.
Venti minuti erano bastati per mettere in discussione quasi dieci anni di Simpson, rischiando di portarli fuori strada dalla loro identità. Rischio poi diventato realtà. In quell’ottava stagione si tastarono i terreni del surreale, gettando le basi per un senso di inconcludenza che ha spesso caratterizzato i finali delle puntate delle ultime stagioni.
La critica, anche spietata, alle tante celebrità ospiti si trasformarono in qualcosa simile a delle ospitate da sitcom.
Il perché questo si verificò è da ricercare innanzitutto nel sempre minor coinvolgimento di Groening, Simon e Brooks nell’ideazione della serie e da un più generale ricambio fra gli autori.
Ma non è tutto. Nel corso degli anni un ingrediente essenziale era scomparso: l’indignazione. Quello sdegno che è il vero motore di una buona satira fin dalla sua invenzione e di cui Giovenale già parlava non ieri ma qualcosa come due millenni fa.
Da attacco ai media del popolo, i Simpson erano diventati parte integrante di essi.
E gli ascolti non hanno fatto altro che confermare il declino: appena il 3% di share per la festeggiata 30esima stagione.
La “Simpson mania”, dispiace dirlo, è finita da un pezzo, pur non senza sussulti. E il successo del film sta lì a testimoniarlo.
I re-watched The Simpsons and charted its decline.
(Based on my episode ratings out of 10). pic.twitter.com/JFkvVlFiOB
— Sol Harris (@solmaquina) June 23, 2017
L’ultimo smacco: i Simpson alla Disney
Come se non bastasse, a marzo 2019 la 21st Century Fox viene acquisita per 71 miliardi di dollari dalla Disney, e insieme a lei tutta la serie Simpson. Dalle stelle alle stalle, episodio della decima stagione si è tradotto in realtà.
Di frecciate alla Disney i Simpson ne hanno lanciate tante. Una su tutte l’episodio della terza stagione, Fratello, avresti da darmi due soldi? La famiglia incontra un gruppo di senza tetto sotto un ponte ferroviario e uno di questi racconta di essere stato ricco e, un tempo, proprietario dei Saloni per massaggi Topolino. Però quelli della Disney l’hanno portato sul lastrico per violazione del copyright. La disavventura dell’uomo finisce con lui che prova senza successo a trovare un compromesso con la casa produttrice di cartoni animati. Dopotutto, «con certa gente non si può proprio ragionare».
Con l’acquisizione della serie si mette quindi fine agli sbeffeggiamenti della Disney, indiscutibile caratteristica del cartone. Ragion per cui, guardando I Simpson – Il film, a un appassionato potrebbe venire nostalgia, quando in una celebre scena Bart si mette in testa un reggiseno nero e mimando le orecchie di Topolino esordisce: «sono la mascotte di una pessima multinazionale».
Negli ultimi anni è andata di moda la ricerca spasmodica alle profezie fatte dalla famosissima serie. Dall’elezione di Trump alle denunce di Snowden. Deve aver fatto male a Matt Groening scoprire che una di queste profezie aveva colpito anche il destino dei Simpson.
A cura di Francesco Puggioni e Federica Ulivieri