CULTURA COME COSCIENZA DI SÉ E DEL TUTTO

Antonio Gramsci ha scritto: “Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri (…) Cosicché essere colto, essere filosofo lo può chiunque voglia”.

È da questa definizione di cultura che il giornalismo, e il mondo di oggi, dovrebbe partire. In una società pluralistica come la nostra, la cultura non può e non deve essere incasellata in un unico spazio. Il giornalismo deve diventare sempre più interculturale, in ogni ambito, con il fine di veicolare una migliore comprensione di un mondo sempre più globalizzato.

Non si può parlare di politica, di economia, di cronaca, di sport o di cultura se non si ha ben chiaro a chi ci si sta rivolgendo, alla pluralità di culture a cui si comunica. Il giornalismo, le scuole, le organizzazioni, le istituzioni, consapevoli dell’importanza che il loro ruolo professionale ha sull’opinione pubblica, devono stare al passo con un mondo che è in continua trasformazione, devono adattare il linguaggio alle nuove generazioni, parlare con loro, per loro, attraverso di loro. Devono essere semplificatori, mediatori e selezionatori di quel complesso ecosistema informativo che ci circonda.

Viviamo in un presente che è sempre più saturo di voci, di opinioni, di notizie. In una quotidianità sempre più tecnologica, dove testa china e smartphone in mano sono diventati la regola, dove il verbo condividere è diventato il nuovo modo di conoscere, dove la vera informazione si perde tra altre mille notifiche che lasciano sempre acceso lo schermo del proprio dispositivo.

Spesso mi capita di soffermarmi a osservare la gente sul tram o sulla metropolitana. A prescindere dal sesso e dall’etnia, mi piace guardare i loro comportamenti, i loro volti, il loro modo di smanettare con il telefono e a volte anche sbirciare quello che stanno facendo. Sono da sempre molto curiosa e mi fa riflettere vedere quanto siamo tutti uguali. Come passiamo il tempo, di continuo, tutti sugli stessi social, alla ricerca della migliore espressione di noi stessi, o meglio, quella che vogliamo mostrare.

Con le cuffiette nelle orecchie ad ascoltare la musica del momento che oltre al ritmo non ha nulla che ne giustifichi l’ascolto. Testi per lo più vuoti di significato e parole combinate senza troppo senso. Eppure, piace, non lo nego: la ascolto anche io. E forse c’è bisogno di questa musica, adesso, in questo presente che pesa, una musica vuota non può aggiungere altro carico, anzi dà leggerezza. Probabilmente per lo stesso motivo anche molti articoli di giornale hanno perso il loro spessore, la loro autorevolezza.

La velocità che offre il web, porta a fermarci più sulle apparenze, ad accontentarci di sapere di tutto un po’, a credere a ciò che è più facile da comprendere, ad annoiarci in fretta, a perdere l’attenzione ancora più velocemente. Ai più basta sapere il minimo indispensabile, traendo notizie da un tweet, un post, una notifica flash, dove chiunque può essere l’autore di questi contenuti.

Ognuno ha il diritto di volere o meno informarsi, di sapere o di non sapere, di esprimersi o no ma ciò comporta un rischio: si arriva ad avere un universo informativo sempre più ricco, di notizie, di opinioni, di idee, che possono essere tanto vere quanto false perché c’è sempre meno controllo sulla veridicità di ciò che circola. Da un lato perché il fare informazione non è più riservato solo a chi fa il giornalista di professione, dall’altro perché c’è troppa poca “coscienza di sé e del tutto”. Troppa poca voglia di “comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con le altre persone”, riprendendo le parole di Gramsci.

Stiamo vivendo nel migliore dei mondi possibili a livello di comunicazione, grazie ai mezzi e alla tecnologia di cui disponiamo, a cui corrisponde però la peggiore delle informazioni possibili sul piano della credibilità, dell’aderenza ai fatti, del rispetto delle persone coinvolte negli eventi. C’è una grande assenza di Cultura, o meglio, una mancanza di Interculturalità: di quella capacità di essere introspettivi di se stessi e aprirsi ad un rapporto empatico con l’Altro.

La cultura non è fatta solo di sapere, di manuali, di libri, di conoscenze; la cultura è vissuto, è sofferenza, è esperienza di vita, è il proprio sguardo sul mondo, sulla realtà. Nulla di astratto ma tutto indescrivibilmente concreto. Si parte da se stessi per arrivare a un continuo confronto con l’Altro. Un rapporto sano, dove si può imparare, si può ascoltare, si può confidarsi, raccontarsi, sfogarsi, reagire o stare immobili. In ogni caso, si porta a casa qualcosa.

È fondamentale che il prima possibile il giornalismo, come la scuola e le istituzioni, trasmetta l’importanza che ognuno ha di farsi da interprete di scenari, di fungere da filtro fra informazioni verificate, segnalazioni e news-stream derivanti dai social media, arrivando così a formare e definire la propria idea, la propria visione sulla realtà. Fondando il proprio lavoro su autorevolezza personale, efficienza e carisma, i giornalisti devono stagliarsi come attori sempre più credibili all’interno di un ecosistema che straborda di informazioni ed educare gli altri a informarsi, ad ascoltare, a raccontarsi.

Siamo noi, ognuno di noi, la risorsa più grande per il nostro presente e per il nostro futuro in questa società pluralistica e complessa in cui viviamo. Mi immagino un mondo in cui ciascuno di noi si impegni ad avere “coscienza di sé e del tutto”. Sarebbe un’utopia fantastica, o no?

Questo tipo di cultura è la ricchezza di cui si ha bisogno, di cui le pagine di giornale necessitano. Per arrivarci, per scoprirla, bisogna confrontarsi, bisogna andare alla ricerca di voci nuove, tante voci, tante vite, tante esperienze. Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ci vuole dedizione, ci vuole amore.

Che tipo di giornalismo è quello che si chiude nelle redazioni? Quello che si spende sulla strada, di fretta e con fatica? Che tipo di giornalismo è quello che si misura con editori ancora analogici, incapaci di capire il digitale e di investirvi?

Diamo spazio alle voci, in tutte le lingue, a storie di vita, di etnie differenti, di punti di vista reali, concreti e sconosciuti perché la cultura non è solo educazione intellettuale ma è soprattutto educazione delle emozioni, dei comportamenti e del rispetto dell’Altro.

 

 

Francesca Daria Boldo

Nata e cresciuta tra le Dolomiti Bellunesi, Patrimonio UNESCO, classe ’96. Scorpione di segno e di fatto: empatica, estroversa ed energica (un po' rivoluzionaria). Laureata in Filosofia e specializzata alla magistrale di Editoria e Giornalismo all’Università degli studi di Verona, collaboratrice del quotidiano scaligero L’Arena e giornalista praticante per MasterX. Fin da piccola, annotare su un foglio bianco il mio punto di vista sul mondo e interrogarmi su mille perché è sempre stato il mio passatempo preferito e lo è anche adesso. La mia ambizione? Diventare una giornalista televisiva. Quando? Senza fretta ma senza sosta.

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