«Nessuno basta a sé stesso». La regista Susanna Della Sala racconta la “sua” Bombay Beach

L’intervista è stata realizzata dagli studenti del Secondo anno del Master

L’articolo è stato curato da Valeria Boraldi e Andrea Achille Dell’Oro

«Quello che mi ha sorpreso di più di Bombay Beach è che si tratta di un luogo in continua trasformazione e forti contrasti. Sono rimasta spiazzata dagli sguardi delle persone. I loro occhi comunicano, al contempo, orrore e meraviglia. Il posto stesso è pieno di droga e criminalità, ma anche di energia vitale, ottimismo e arte…».

L’artista, regista, illustratrice e scenografa Susanna Della Sala è stata ospite del Master di Giornalismo dell’Università IULM di Milano, per un’intervista esclusiva e fluviale, in cui racconta se stessa, il proprio lavoro e la Bombay Beach al centro della scena di Last Stop Before Chocolate Mountain.

Il documentario, prodotto da DocLab, è potente, destabilizzante e sorprendente. È tra i dieci candidati al David di Donatello 2023.

Dopo aver conseguito il diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, e aver proseguito la propria formazione agli HB Studios di New York, Susanna ha iniziato a mostrare notevole propensione per il cinema con il corto Il Dottore dei pesci e con il film Neolovismo, co-diretto con l’ex compagno Mike Bruce (autore di molti videoclip) e presentato al Pesaro Film Festival.

Last Stop… ha avuto un’anteprima a Locarno e poi ha vinto tre premi al Festival dei Popoli di Firenze (Premio Distribuzione in Sala Imperdibili, Premio Il Cinemino di Milano e Premio AMC, Associazione Montaggio Cinematografico e Televisivo).
L’abbiamo incontrata per farci raccontare il suo viaggio verso e dentro una realtà magica, ma difficile, come quella di Bombay Beach, California.

 

Un fotogramma di “Last Stop Before Chocolate Mountain”

Cosa l’ha colpita di più di un luogo così sperduto e desertico come Bombay Beach?
A Bombay Beach regna l’assenza. La vita si rigenera anche nel contesto di una discarica. È un po’ come l’essere umano, può distruggere, ma anche creare, fare del bene, avere una vita alternativa. Inoltre, mentre da noi troppo spesso l’arte è “elitaria” (la fanno solo gli artisti e le persone istruite), lì invece l’arte nasce quasi spontaneamente e diventa puro linguaggio. Dal giorno alla notte, Bombay Beach si trasforma da città fantasma a comunità animata e piena di vita.

Come ha scoperto Bombay Beach, vera protagonista di Last Stop Before Chocolate Mountain?
L’ho scoperta undici anni fa, grazie a Tao Ruspoli, che è stato quasi un maestro. Non sapeva bene neanche lui chi vi abitasse. Bombay Beach si trova a quattro ore da Los Angeles, ma tante persone non sanno nemmeno che esiste. Quando sono arrivata mi sono lasciata trasportare dagli abitanti, divenuti poi personaggi del film. Il primo che ho incontrato è stato Adam, l’ex rapinatore in pensione, che ha passato molti anni in carcere. Mi ha catturata subito, perché io arrivo dal disegno e lui realizza disegni ovunque, su quel che trova, fogli, pezzi di cartone… Ha imparato a disegnare in carcere e ci si è tuffato come una sorta di terapia. Mi ha domandato perché mi trovassi a Bombay Beach e gli ho risposto che volevo semplicemente raccontare una storia. Lui mi ha detto: «Racconta me!». E così ho iniziato.

Da “Last Stop Before Chocolate Mountain”

Tra riprese e montaggio, quanto è durata la gestazione del film?
Ci sono voluti un paio di anni. Sommando i vari soggiorni, sono rimasta a Bombay Beach una decina di mesi. Ogni volta rimanevo per circa novanta giorni. Poi tornavo in Italia, rivedevo il materiale, facevo altri lavori e poi di nuovo compravo un biglietto per l’America. L’ultima volta, però, è andata diversamente. Dato che mi scadeva il permesso, sono scappata in Messico, per poi rientrare in California. L’anno del lockdown è stato il più complesso. Non potendomi muovere dall’Italia, ho chiesto a un operatore locale di fare le riprese mentre io guardavo dal cellulare. Ad esempio, ad Adam, una volta ho chiesto in che rapporti fosse con la madre, dato che la maggior parte degli abitanti non sapeva neppure che fossero madre e figlio. Dopo aver scoperto che, proprio quel giorno, sarebbero andati finalmente insieme a fare una passeggiata sul lago, ho chiesto il permesso di riprenderli, così li ho seguiti attraverso una videochiamata…

Pensava già a uno stile “documentaristico” oppure le è venuto in mente in fase di realizzazione?
Sin dall’inizio ho cercato il bello nel degrado. La location era onirica, suggestiva e surreale. Mi sono limitata a tirare fuori una magia che già c’era. Volevo essere solo un’ombra, non sono intervenuta quasi mai, tranne qualche volta. Non volevo parlare di quel posto in modo drammatico, come hanno fatto in passato molti video su internet. Essendo un luogo libero e anarchico, volevo portare lo spettatore in una dimensione tra il reale e l’irreale. Senza però limitare la libertà delle persone del luogo. La macchina da presa era un mezzo per raccontare storie tormentate.

Da “Last Stop Before Chocolate Mountain”

Che rapporto ha con la macchina da presa?
Di amore e odio. Da un lato, è una lente di ingrandimento che amplifica i dettagli, permettendoti di cogliere l’emotività delle persone. Dall’altro, è un atto di “violenza”, invadente e inquietante. Ho sempre tenuto la macchina da presa in basso, per guardare direttamente chi filmavo. Tutti i dialoghi sono spontanei, senza copioni, e ogni loro frase è una perla di saggezza. Mi ha colpito molto, ad esempio, la risposta che mi ha dato una signora, Sonia, quando le ho chiesto come si immaginasse il paradiso: «Una tappezzeria dove tutto funziona, dove ogni cosa è incastrata perfettamente e dove tutti lavorano insieme». Tutte le persone che ho incontrato mi hanno insegnato l’ottimismo, la capacità di andare avanti e l’importanza della dimensione collettiva.

Nel suo film precedente, Neolovismo, la coppia protagonista – due fidanzati – si rinchiude dentro una casa e si confida alla macchina da presa. Crede che il cinema possa svolgere un ruolo terapeutico?
Assolutamente sì. L’intenzione di Neolovismo era proprio esorcizzare alcuni temi analoghi. A Bombay Beach in molti sono venuti da me spontaneamente. Ad esempio, il personaggio di Attaway in Last Stop… ha detto «Voglio raccontarti la mia storia e credo che questo mezzo possa essere un modo per poterlo fare. Fammelo usare come gioco». Così è nata la scena in cui lui improvvisa un rap sulla sua storia. Gli ho dato questa libertà, per raccontare cose che non aveva avuto il coraggio di dire in altro modo.

Dove ha alloggiato durante le riprese?
Ho vissuto in una casetta mobile prefabbricata, proprio con Attaway e i suoi figli. Questo mi ha aiutata a entrare in intimità con loro. Sono strutture molto sporche, immerse nella polvere. Quando siamo arrivati, abbiamo anche pulito tutto, ma, comunque, hai le finestre rotte, acqua ghiacciata e sei senza riscaldamento. Sono case ferme agli Anni Cinquanta.

Come ha lavorato al montaggio?
È stata la parte più complessa. Abbiamo fatto un lavoro a sei mani. C’è stata una prima fase in cui la prima montatrice, Elisabetta Abrami, ha fatto un lavoro di scrematura, trovando le parti che potevano essere escluse. Ad esempio, io non volevo che la storia ambientale fosse predominante nel film, perché ci tenevo a raccontare il luogo con caratteristiche “universali”. Infatti, ho anche tolto le bandiere americane, che contestualizzavano troppo. Volevo che fosse l’emotività dei personaggi a guidare il film, non il posto in sé. Dopodiché, nella seconda fase, sono subentrata io. Siamo partiti da 300 ore di girato e in due mesi sono arrivata a un premontato di 4 ore. Da lì in poi è arrivata l’altra montatrice, Aline Hervé, e insieme siamo riuscite a portarlo a un’ora e mezza.

Dopo quanto tempo è arrivato il titolo?
Ci sono voluti due anni. Non volevo che descrivesse la realtà, doveva essere squisitamente metaforico. Abbiamo optato per Last Stop Before Chocolate Mountain (“Ultima fermata prima della Montagna di Cioccolato”, ndr), perché dava l’idea sia di un improbabile paese dei balocchi, sia di una terra di transizione che permette di approdare a qualcosa di nuovo.

Parte della musica è stata realizzata live da Alex Ebert degli Edward Sharpe and the Magnetic Zeros e da Vera Sola…
Alex l’ho incontrato per caso a Bombay Beach, sembrava Gesù. È un musicista inarrivabile, ha vinto anche un Golden Globe per la miglior colonna sonora. Ho collaborato con lui a un video musicale che ha girato lì. Dopo tre anni e mezzo, gli ho mandato il film. Lui guarda le immagini e mi dice che il suono più adatto è il fischio perché comunica un senso di malinconia. Così mi manda il pezzo finale, senza chiedere nulla in cambio. Vera Sola vive e fa spettacoli a Bombay Beach. Era sempre vestita di bianco, eterea. La contrattazione è stata lunga, ma anche lei alla fine mi ha aiutato gratuitamente con la sua musica. Quando dico che è un film collettivo, intendo proprio questo. Nessuno basta a se stesso, il cinema è un lavoro di squadra.

Ha mai provato paura a Bombay Beach?
Spesso. È un luogo dove vengono mandate le persone che hanno commesso vari crimini, anche sessuali. Le trovi ovunque, per strada come al supermercato. A maggior ragione se sei donna, devi stare molto attenta a girare da sola di notte, oltre a farti accompagnare da qualcuno ed essere vigile. Poi ogni tanto mi sono sentita in pericolo con uno dei protagonisti, che ha un rapporto pesante con stupefacenti e alcol. Spesso era fuori di sé. Una mattina di maggio, ero in casa da sola perché gli artisti erano andati via per il caldo. Lui arriva e si mette a imprecare intimandomi di toglierlo dal film… Poi è tornato in sé

Tornerà a Bombay Beach?
A fine marzo. Ho un po’ di paura, in particolare per il personaggio irascibile e per il suo problema di tossicodipendenza. Temo che si sia in parte pentito della sua comparsata nel film. Però penso di aver messo in mostra la spontanea genuinità di tutti i personaggi.

Come ha reagito quando ha saputo che era candidata al David di Donatello?
Ho pianto. È un film iniziato all’arrembaggio, avevamo due micro-macchine da presa prestate da un amico, un microfono orrendo e pochissimi soldi, raccolti tramite una raccolta fondi. E per quanto desiderassi con tutto il cuore fare un film, non sapevo se ne fossi effettivamente capace. Certo, non facciamo le cose soltanto per il successo, ma, se arriva, allora sei riuscita a comunicare qualcosa a qualcuno…

Da “Last Stop Before Chocolate Mountain”

 

 

Valeria Boraldi

Nata a Carpi e con il cuore a forma di tortellino. Milano è la mia seconda casa e il giornalismo televisivo la mia grande passione. Un gatto, Piru, che mi riempie la vita d'amore e lo spirito libero di una curiosa viaggiatrice. Amo leggere e mangiare cioccolata. Tanta cioccolata.

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