Che fine ha fatto l’olio di palma? Non se ne sente più parlare, eppure tra il 2015 e il 2016 l’argomento aveva sollevato un vespaio di polemiche. A certificarlo è anche Google Trends, le cui rilevazioni evidenziano come, in Italia, le ricerche sull’argomento si siano ormai quasi azzerate.
Tutto ebbe inizio il 13 dicembre 2014, quando per le imprese alimentari europee scattò l’obbligo di indicare la precisa natura delle sostanze utilizzate nei prodotti in commercio. Messe dunque al bando generiche diciture quali “oli e grassi vegetali”, emerse il netto predominio – fino a quel momento pressoché occulto – di un olio da subito accusato di essere insalubre e poco sostenibile. Naturalmente, nonostante negli anni sia stata dimostrata l’esagerata severità di tali rilievi, il baccano provocato dagli inquisitori si è rivelato ben più rumoroso delle successive delucidazioni degli esperti del settore. Di conseguenza, nel timore di un netto calo delle vendite, in molti hanno rimosso l’olio di palma dai propri prodotti, non mancando di segnalarlo pervasivamente al consumatore. Altri, invece, hanno preferito continuare sulla stessa strada. Perché l’olio di palma, se certificato, può fare rima con qualità. Come rilevato dall’Istituto superiore di sanità, è semmai il suo abuso a generare rischi per la nostra salute, esattamente al pari di altri alimenti simili, burro in primis. Per quanto concerne invece la sostenibilità ambientale, i dati parlano chiaro: la palma ha una resa molto più elevata rispetto a ogni altro tipo di olio vegetale. «In altri termini – spiega Stefano Savi, direttore Global Outreach and Engagement di Rspo – per produrre l’olio utilizzato dall’industria rinunciando alla palma e usando altre tipologie di piante produttrici, ci vorrebbero molti più terreni, molta più chimica, molta più energia, molta più deforestazione».
Qual è dunque oggi, a pistole non più fumanti, la situazione in Italia? Per scoprirlo, abbiamo analizzato le scelte compiute dalle due “eterne rivali” del settore dolciario nostrano, Ferrero e Barilla-Mulino Bianco, con un rapido sguardo finale anche agli altri grandi player presenti sul mercato.
Ferrero
Ferrero, per distacco prima azienda dolciaria italiana dall’alto dei suoi 10,5 miliardi di euro di fatturato annuo, non ha mai smesso di utilizzare l’olio di palma all’interno dei suoi preparati. Alle feroci critiche che hanno fatto seguito a tale decisione, la società di Alba ha sempre tentato di ribattere colpo su colpo, ergendosi di fatto a principale peroratrice dell’utilizzo del vituperato grasso vegetale nel nostro Paese.
Strategia vincente? Inizialmente non di certo, almeno a giudicare dal -3% delle vendite nei negozi italiani del suo prodotto più significativo, la Nutella, che si registrò tra la seconda metà del 2015 e l’agosto 2016. Poi la svolta: nell’autunno successivo, in occasione dei propri 70 anni d’attività, Ferrero volle dire basta al “terrorismo alimentare”, come lo definì l’allora viceministro alle Politiche agricole Andrea Olivero. Nacque così il portale qualita.ferrero.it, vero e proprio manifesto digitale delle posizioni dell’azienda in merito alla spinosa questione della salubrità dell’olio di palma.
«L’olio di palma Ferrero è un olio di eccellente qualità e sicurezza»
Questo l’incipit dell’arringa difensiva del colosso piemontese, totalmente incentrata sulla bontà delle materie prime utilizzate e sull’attenzione riservata a ogni fase della filiera produttiva. Perché se da un lato, tenuta ferma la necessità di non consumarne quantità eccessive, «la letteratura scientifica non riporta l’esistenza di componenti specifiche dell’olio di palma capaci di determinare effetti negativi sulla salute», dall’altro è la sua lavorazione industriale a essere potenziale veicolo di pericoli concreti. A temperature superiori ai 200 gradi, infatti, gli oli vegetali sviluppano sostanze che, ad alte concentrazioni, sono state classificate come genotossiche e cancerogene. Ecco perché Ferrero tiene a illustrare: «Una volta raccolti i frutti di palma, ci assicuriamo che la spremitura da parte dei nostri fornitori avvenga nel più breve tempo possibile. Il successivo processo di lavorazione e purificazione viene effettuato a temperature controllate, allungando i tempi necessari ma mantenendo meglio le caratteristiche naturali della materia prima». Il tutto contando sulla tracciabilità del prodotto, che già a dicembre 2015 l’azienda comunicò essere complessivamente del 99,5%.
Ottobre 2016: spot promozionale Ferrero.
Ma non si trattò di un repentino cambio di strategia. L’impegno a garantire che i produttori fornissero «olio completamente tracciabile, compresi i piccoli coltivatori» figurava infatti al punto numero uno della “Palm Oil Charter” dell’azienda già da novembre 2013, oltre un anno prima dell’inizio dell’intera querelle. Quanto invece alla correlata questione della sostenibilità ambientale, Ferrero rispetta sia i criteri della Rspo (Roundtable on sustainable palm oil) che quelli – più stringenti – del Poig (Palm oil innovation group). Per questo ha ricevuto perfino il plauso di Greenpeace: «L’azienda sta implementando step by step una politica di acquisti dell’olio di palma molto ambiziosa in termini di sostenibilità ambientale – ha dichiarato la Forest Campaigner Martina Borghi. Per questa ragione riteniamo che Ferrero sia una delle multinazionali più all’avanguardia rispetto alla sostenibilità dell’olio di palma».
Tutti riscontri, questi, che convinsero i consumatori a riavvicinarsi al marchio. Riferendoci nuovamente alle performance di Nutella, infatti, il terreno perduto venne recuperato in un solo quadrimestre, con un picco del +15% delle vendite a novembre 2016, proprio a seguito del lancio della nuova campagna di comunicazione. D’altra parte, sono in molti a sostenere che la strenua difesa dell’olio di palma da parte di Ferrero derivi non tanto dalla disinteressata volontà di contribuire a una corretta informazione alimentare, quanto dalla necessità di non poter rinunciare alle sue caratteristiche specifiche, imprescindibili per garantire la migliore spalmabilità alla celebre crema alla nocciola. Un prodotto che, dopo essere stato al centro di un vittorioso contenzioso legale con i belgi di Delhaize per pubblicità ingannevole, in questo 2019 sarà oggetto della concorrenza della nuovissima crema Pan di Stelle di Barilla, preparata a partire dagli omonimi biscotti Mulino Bianco. Più che uno duello alimentare, uno scontro tra filosofie. Vediamo perché.
Barilla
Al contrario di Ferrero, dal 2016 Barilla ha scelto di rimuovere l’olio di palma da tutti i prodotti del suo marchio dolciario, Mulino Bianco. Una decisione certo legittima, sebbene motivata dalle fragili argomentazioni tipiche del fronte del “senza”. A colpire però non è questo, bensì il fatto che Paolo Barilla, numero due del gruppo, sieda anche a capo di Aidepi (Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane), consociazione del settore da subito schieratasi a favore dell’utilizzo dell’olio di palma.
Ottobre 2015: Paolo Barilla si schiera a difesa dell’olio di palma.
A cosa attribuire tale incongruenza? La risposta dell’azienda venne affidata a uno scarno comunicato che chiamò in causa l’impegno a un «miglioramento continuo del profilo nutrizionale dei prodotti, come ad esempio riducendo il sale e i grassi» e annunciò l’imminente messa in commercio di preparazioni che avrebbero evidenziato «le riduzioni di grassi saturi ottenuti grazie alla sostituzione dell’olio di palma». In molti, tuttavia, avanzarono l’ipotesi che la nuova politica fosse da ricondurre a una precisa strategia commerciale destinata a fuorviare i consumatori. Giuseppe Allocca, presidente dell’Unione italiana per l’olio di palma sostenibile, pur non riferendosi specificatamente a Barilla fu in questo senso esplicito:
«C’è il forte sospetto che quella messa in atto sia una precisa scelta di marketing. Permane il dubbio che, in molti casi, la riformulazione delle ricette non abbia dato vita a prodotti con apprezzabili vantaggi in termini di ingredientistica totale o di riduzione di zuccheri e grassi saturi, soprattutto in relazione alle normali dosi o porzioni».
Fonte: Magazine Instore, agosto-settembre 2016
Effettivamente, dopo un 2015 all’insegna dello scetticismo riguardo alle critiche piovute sull’olio di palma, Barilla saltò la barricata appena dopo aver visto contrarsi le vendite dell’intero settore bakery, biscotti in particolare. A fronte di un investimento complessivo di circa 40 milioni di euro vennero dunque riformulate, nel solo 2016, ben 141 ricette. A prendere il posto dell’olio di palma, come riferì la stessa azienda, fu in gran parte quello di girasole, fino a quattro volte più povero di grassi saturi ma meno indicato in sede di cottura, dato il suo inferiore punto di fumo. E i consumatori apprezzarono. Incentivate dallo slogan “senza olio di palma”, infatti, nella seconda metà dell’anno le vendite tornarono a crescere, permettendo al business bakery di recuperare «gran parte delle quote di mercato perse nel primo semestre». Una ripresa, citando il bilancio 2016, «da imputare a più intense iniziative commerciali, a nuove campagne di marketing e alla revisione del profilo nutrizionale dei prodotti».
Così, solo per fare alcuni esempi riferiti a 100 grammi di prodotto, le Macine passarono da 10,8 grammi di grassi saturi a 3,9, i Flauti al cioccolato da 9,4 a 6,5, i Pan di Stelle da 11,5 a 7,8 e le Crostatine al cacao da 12,2 a 6,7. Al ribasso, seppur meno sensibilmente, anche i contenuti calorici.
Ma si tratta di comparazioni che lasciano il tempo che trovano. In primo luogo perché, riducendo la scala del confronto a una singola unità di prodotto, le differenze diventano irrisorie, ma soprattutto perché, come già sottolineato, il problema dell’olio di palma non sta nella composizione chimica, bensì nel suo consumo eccessivo. Se poi si volesse allargare lo sguardo alla sostenibilità ambientale, il paragone girasole-palma diventerebbe impietoso: rispetto a quest’ultima, la coltivazione del girasole produce quasi il doppio di gas climalteranti, ha una resa sei volte inferiore, richiede l’80% in più di terreno e il 50% in più di acqua.
Ciononostante, a percorrere lo stesso sentiero di Barilla sono stati in moltissimi. A volte con conseguenze non certo lusinghiere.
Gli altri marchi
Tra i player nazionali che per primi hanno scelto di rimuovere l’olio di palma dalle proprie produzioni troviamo due grossi nomi della grande distribuzione: Coop ed Esselunga. Sulla loro scia, campagne di riduzione del grasso vegetale sono state implementate da numerose altre catene tra cui Conad, Carrefour, Crai, Eurospin, Esselunga, Md Discount, Ikea, Ld Market e Pam-Panorama. Stessa scelta anche da parte di marchi come Colussi, Balocco, Paluani, Plasmon, Tre Marie, Galbusera, Lazzaroni, Loacker, NaturaSì, Ringo, Vincenzi e Pavesi. Tra chi ha voluto seguire l’esempio di Ferrero troviamo invece Nestlè, Bauli, Motta, Saiwa, Mondelēz e Vitasnella.
La schiera dei sostenitori del palm free appare dunque nutrita. Tuttavia, in diversi casi la toppa si è rivelata peggiore del buco. Questo perché, pur avendo eliminato l’olio di palma, non sempre per le aziende del “senza” il confronto con i prodotti concorrenti si è dimostrato benevolo. A metterlo in luce, nel 2017, è stata un’analisi comparativa delle etichette di oltre cinquanta prodotti effettuata dall’associazione “Campagne Liberali”. Dalle conclusioni dello studio, emblematicamente intitolato “Senza olio di palma, ma più saturi”, è emerso che
«la sostituzione dell’olio di palma non determina necessariamente un miglioramento del profilo nutrizionale dei prodotti alimentari, con riferimento ai grassi totali e saturi. Al contrario, si dimostra che diversi prodotti contenenti olio di palma contengono meno grassi, sia totali sia saturi, rispetto ai corrispettivi “senza palma” e con oli e grassi alternativi (olio di semi di girasole, di cocco, di mais, di karité e di cartamo o grassi animali come burro e panna). Pertanto è possibile affermare che esiste il serio rischio cheil consumatore risulti confuso e ingannato da claim e messaggi che promuovono alimenti senza olio di palma come sistematicamente migliori dal punto di vista nutrizionale».
Di fronte a una tanto accurata raccolta di dati oggettivi, dar torto a tali argomentazioni risulta assai arduo. Eppure la correlazione “senza olio di palma/maggior salubrità” sembra ormai essere diventata dogma condiviso all’interno di un’estesa fetta dell’opinione pubblica. Così, dopo i trambusti degli ultimi anni, l’affaire olio di palma si è oggi stabilizzato intorno a nuove, silenti coordinate. Sebbene quiescente, la contrapposizione tra i due blocchi contrapposti sembra tuttavia essere destinata a protrarsi ancora per lungo tempo.