Julian Assange patteggia con gli Usa, può tornare libero

Julian Assange

Barba lunga, volto stravolto, trascinato da sette uomini in borghese verso due camionette della polizia inglese. È l’11 aprile 2019 quando Julian Assange viene arrestato nell’ambasciata ecuadoriana di Londra, che dal 2012 era stato il suo nascondiglio. Sono passati cinque lunghi anni da quel momento: tra pretese di estradizione, richieste di rilascio e trattative con presidenti. Da lunedì 24 giugno il fondatore di WikiLeaks è stato rimesso in libertà.

A patti con Biden

Do ut des: il più semplice dei patteggiamenti. Il rilascio dalla prigione britannica in cambio di una ammissione di colpevolezza. Per lo meno di uno – cospirazione per la diffusione di informazioni sulla difesa nazionale – dei 18 capi d’accusa di cui è imputato Assange. Tutti relativi alla sua attività di WikiLeaks e la diffusione di carte militari statunitensi top secret riguardanti le operazioni in Iraq e Afghanistan nonché i detenuti nel campo detentivo di Guantanamo Bay. La talpa, l’ex analista di intelligence Chelsea Manning, era stata condannata a 35 anni di reclusione prima di ricevere la grazia dall’allora presidente americano Barack Obama. Assange, dalla sua, rischiava una condanna fino a 175 anni per la pubblicazione.

Poco dopo l’annuncio dell’accordo, la moglie Stella Assange ha pubblicato il video del marito che firmava i documenti e si imbarcava su un aereo. Il 52enne dovrà comparire mercoledì 26 giugno alle 9 di mattina di fronte a un giudice federale americano. L’incontro di persona avverrà nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Più in particolare nel distretto di Saipan, la capitale delle Isole Marianne Settentrionali che hanno status di Commonwealth degli Stati Uniti. Da qui, alla fine del procedimento ritornerà a casa in Australia. Secondo quando è noto, gli Stati Uniti lo condanneranno a 62 mesi di detenzione, l’esatto tempo che Assange ha trascorso nella prigione di Belmarsh. Questo periodo dietro alle sbarre sarà dunque riconosciuto dal giudice federale e la pena ritenuta scontata.

Biden contro l’FBI

Una svolta storica ma certamente non inaspettata per il più grande caso di leak di documenti secretati. All’inizio dell’anno il primo ministro australiano Anthony Albanese aveva spinto affinché il presidente americano Joe Biden concludesse il caso in maniera rapida. Biden stesso si era detto disponibile a questa soluzione, aprendo anche a una possibile grazia. La posizione dell’FBI (Federal Bureau of Investigation) e del Dipartimento di Giustizia era rimasta rigida: nessun patteggiamento senza riconoscimento di colpevolezza. La pubblicazione di informazioni top secret era ritenuta un rischio troppo grande per l’incolumità dei militari americani e degli iracheni che collaboravano con l’Army.

Il mese scorso Assange aveva presentato al tribunale del Regno Unitoe vinto – un appello contro la sua estradizione negli Stati Uniti. Temeva, infatti, che un suo trasferimento oltreoceano avrebbe reso ben più difficile qualunque trattativa. E temeva anche che il suo diritto alla vita non venisse rispettato. Proprio in quel Paese di cui aveva scoperchiato il vaso di Pandora. «Questo periodo della nostra vita è giunto al termine», ha detto la moglie Stella. «Quello che inizia ora, con la libertà di Julian, è un nuovo capitolo».

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