Ogni giorno il personale medico di tutti gli ospedali dal nord al sud Italia continua la sua battaglia contro il Coronavirus fra turni estenuanti e condizioni di lavoro critiche. Sotto camici, guanti e mascherine ci sono persone preoccupate per i loro pazienti, per le loro famiglie e solo per ultimi, se è rimasto abbastanza tempo, per loro stessi.
Ilenya Lazzereschi ha 28 anni e lavora come operatrice socio-sanitaria al Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. Quando ha iniziato, quasi un anno fa, il padiglione cinque era dedicato a diversi tipi di chirurgia e medicina. In breve tempo è stato riadattato a reparto di malattie infettive per poter ospitare i pazienti affetti da Covid-19. «Inizialmente pensavo si trattasse di una situazione temporanea. Vedevo sempre più aree trasformarsi, ma non credevo che arrivassero a chiamare anche me» ha raccontato. Ora gran parte dell’ospedale è attrezzato per accogliere i malati di Coronavirus, il padiglione 25 è stato riaperto dopo cinque anni e ristrutturato in appena sei giorni per far fronte all’emergenza. Per gli altri pazienti sono rimasti disponibili solo i reparti indispensabili, come “trapianti” e “chirurgia d’urgenza”, ma «abbiamo dovuto sistemare insieme ricoverati con diverse patologie proprio perché tutte le altre aree sono state adibite alle malattie infettive».
Soltanto nel padiglione cinque ci sono circa una decina di reparti Covid-19, tra cui un’area dedicata a pazienti intensivi, attaccati ai ventilatori polmonari. In quello in cui lavora Ilenya si trovano 32 positivi. I turni sono cambiati molto nelle ultime settimane. «Mattina e pomeriggio sono i momenti della giornata più carichi di lavoro. Mentre la notte può capitare di riuscirsi a sedere per un paio di minuti» continua la oss. Quelli di otto ore sono diventati di dieci, mentre il notturno può spesso arrivare fino a 12 ore. «I processi di vestizione e svestizione richiedono molto tempo ed è necessario arrivare in ospedale almeno mezz’ora prima dell’inizio del turno».
In un primo momento oss, infermieri e medici, sopra la divisa, indossavano una tuta, una mascherina ffp3, la cuffia per coprire i capelli e due paia di guanti in lattice. «I dispositivi di protezione individuale adesso iniziano a scarseggiare, quindi abbiamo a disposizione solo camici in tessuto non tessuto, i calzari, che spesso sono semplici buste di plastica, e le mascherine ffp2 – spiega Ilenya – Ognuno di noi la copre con una mascherina chirurgica per salvaguardarne la pulizia, dato che dobbiamo usarla per tutta la durata del turno nonostante la sua efficacia sia garantita per otto ore. Per sei giorni abbiamo addirittura lavorato con le mascherine da muratore, in attesa che venisse fatto rifornimento». A nessuno dei dipendenti del policlinico è stato fatto il tampone, se non in caso di contatto accertato con pazienti risultati positivi, perché non ce ne sono abbastanza a disposizione.
Durante il turno alcuni del personale medico entrano nell’area “sporca” per rilevare i parametri dei pazienti e assisterli nelle cure igieniche. Gli altri dipendenti rimangono nella zona “pulita” del reparto così da passare terapie e materiale per l’assistenza e per aggiornare le consegne, evitando a chi sta dentro di uscire troppo spesso e infettare le divise. La separazione delle due aree consiste in una delimitazione a terra con il nastro adesivo, tappetini monouso intrisi di cloro per sanificare le scarpe e due tavoli posti al centro del corridoio del reparto, uno per la vestizione e uno per la svestizione.
«La prima volta che sono dovuta entrare, ho avuto paura di non farcela. Avevo il terrore a respirare, quindi sono stata in apnea più tempo che ho potuto – racconta Ilenya – Se venivo a contatto con liquidi corporei, mi disinfettavo così tanto da avere irritazioni alla pelle». Ma non c’è il tempo per farsi prendere dalle emozioni. Ogni giorno si liberano dei posti letto, sia perché alcuni pazienti positivi non mostrano più sintomi e vengono quindi spostati nel padiglione uno in attesa di essere dimessi, sia perché si registrano dei decessi. «Spesso abbiamo solo 15 minuti di tempo per sistemare e sanificare una postazione, perché c’è già un nuovo malato in attesa di essere ricoverato».
Dal punto di vista fisico, si tratta di una dura prova: stare tante ore in piedi e trattenere la pipì il più possibile, per non perdere tempo prezioso a svestirsi e vestirsi ogni volta, la difficoltà di respirare nella mascherina, «dopo tanto tempo che respiri la tua stessa aria inizia a girare la testa», spiega Ilenya. La pelle mostra segni di irritazione. «Le mani stanno praticamente cadendo. Stanno ore nei guanti e non respirano, poi le laviamo di continuo con gel alcolico. Facciamo almeno due docce giorno: una quando finiamo il turno e andiamo nello spogliatoio, un’altra io la faccio quando torno a casa, perché ho bisogno di lavarmi i capelli e dopo essermi seduta sull’autobus non mi sento abbastanza pulita».
Ma non è l’aspetto più arduo. «È doloroso vedere come le persone affette da Coronavirus si ritrovino davvero isolate e sole. Tanti sono anziani e le terapie sperimentali non hanno effetto su di loro, quindi gli viene somministrata la morfina per non soffrire e li assistiamo fino alla fine. I familiari non posso entrare e anche noi possiamo rimanere dentro le loro stanze il minimo indispensabile. Queste persone muoiono da sole».
Alla domanda “ti senti un eroe? Senti la vicinanza del Paese?” Ilenya risponde che nel quotidiano la realtà è ben diversa da quella che sembra sui social network e in televisione. «Non mi sento un eroe, mi sento avvilita. Dobbiamo farci bastare lo scarso materiale a disposizione, i livelli di assistenza sono molto ribassati e sento di non poter dare il massimo che vorrei. Amo il mio lavoro, ma anche prima dell’emergenza Coronavirus correvo dei rischi. Sento la vicinanza dei miei amici, della mia famiglia e soprattutto dei miei colleghi, ma non dell’Italia. Se l’Italia ci volesse davvero bene, la gente uscirebbe solo quando non può fare altrimenti e prenderebbe tutte le precauzioni necessarie. Non si allontanerebbero da me appena notano i segni della mascherina sul viso».