Lorenzo, l’infermiere chiamato al ‘’fronte’’: «Con i pazienti impariamo a comunicare con gli occhi»

«A che ora finisci di lavorare oggi?»

«Alle 14,30. Chiamami nel pomeriggio».

Sono quasi le 18, accendo Skype e chiamo Lorenzo Pavia, un giovane infermiere romano, che da poco più di un mese ha iniziato a lavorare al Pronto Soccorso dell’Ospedale Grassi di Ostia, nel sud-ovest di Roma. Ha una faccia stanca, lo vedo, ma anche tanta voglia di raccontare. È come un fiume in piena. Lui, che divide la sua vita tra la grande vocazione lavorativa e quella passione infinita per la musica. Il blues in particolare, che gli ha stregato il cuore e rubato l’anima e con il quale dà forza alle storie che vede e che vuole raccontare. Ultimamente storie tristi, spesso strazianti: «Assisto gente in terapia intensiva. La frequenza cardiaca delle persone che diminuisce e la morte che si avvicina. Il Coronavirus poi… Si porta via i malati senza nemmeno dargli la possibilità di avere un parente vicino. Io mi sento un privilegiato a poter essere accanto a una persona in quei momenti. Perché sai, non potremo stringerci le mani, abbracciarci, ma possiamo comunicare con gli occhi. Ed è con uno sguardo che dico al paziente: non possiamo farci nulla, solo farci forza…»

 

Ma partiamo dall’inizio. Ti iscrivi a un concorso pubblico, sei in graduatoria e arriva una chiamata.

«L’ospedale romano Sant’Andrea ha indetto un concorso pubblico a tiratura regionale. Il concorso alla fine non è servito solo a rinforzare il Sant’Andrea, ma ha dato vita a una riqualificazione generale di tutto il personale sanitario del Lazio. Sono stati chiamati quelli che si erano posizionati tra i primi 1040 sui 30.000 partecipanti, e io ero tra quelli. Ho iniziato a lavorare che si iniziava a parlare dell’importanza del lavaggio delle mani, di non toccarsi la faccia, ma ancora la gente circolava e non c’era l’obbligo della mascherina. Poi ovviamente con il Coronavirus la richiesta di forze è stata ancora maggiore. Ma era necessaria una situazione del genere per capire che serviva personale sanitario?»

Come lo giudichi il servizio sanitario dell’Italia?                                                

«In Italia siamo molto all’avanguardia. L’Articolo 32 della Costituzione è un’opera d’arte, vorrei che che la gente lo conoscesse.
Abbiamo un servizio gratuito e di qualità. In America il tampone lo fai, ma se paghi. Noi siamo pieni di professionisti sanitari. L’epidemia di Coronavirus poi, ha ovviamente imposto misure più stringenti e un maggiore reclutamento di forze. Nessuno poteva immaginare inizialmente delle ricadute così importanti».

Come è cambiata la tua vita da quando hai iniziato a lavorare? Che tipo di precauzioni hai preso per te e la tua famiglia?

«Appena saputo che avrei iniziato a lavorare al Pronto Soccorso, abbiamo deciso che mio padre dormisse a casa della nonna. Lui è un soggetto a rischio e io potrei essere un potenziale portatore. Ho isolato mio padre, ma chi me lo dice che mia madre sia così forte? Bastano le sole cartelle cliniche? Non dimentichiamoci che, seppur raramente, sono finite in terapia intensiva anche persone giovani».

Che situazione hai trovato al Grassi di Ostia?

«La struttura dove lavoro è piccola, ma è in grado di accogliere un bacino importante di utenza. Noi offriamo assistenza ai residenti, ma anche ai turisti, che soprattutto in estate sono tanti. Questo ospedale va avanti grazie alla dedizione e professionalità di chi ci lavora».

Un reparto dell’Ospedale Grassi di Ostia.
Da infermiere ti senti tutelato?

«Noi infermieri, così come i medici e chiunque lavori dentro le strutture sanitarie, dovremmo avere dei dispositivi di protezione individuali molto più efficaci. I sintomatici trasmettono il virus, ma anche gli asintomatici. E se chi lavora in ospedale prende il virus, ma è asintomatico? Anche io potrei essere un veicolo, un portatore. Senza dimenticare che operiamo in contesti dove ci sono persone che hanno altre criticità cliniche, più o meno gravi».

È giusto che il personale sanitario, soprattutto in emergenze come queste, torni a casa dopo il lavoro?

«So che non è facile, ma bisognerebbe provvedere a delle strutture che possano ospitarci dopo il lavoro, come ad esempio degli ospedali da campo. Vado a lavorare e poi mi riposo nel dormitorio, senza il rischio di infettare i miei familiari. Se questo non è possibile, bisognerebbe incentivarci dal punto di vista economico, permettendoci magari di trovare alloggi vicino alle strutture. Stiamo combattendo una guerra con i fucili caricati ad acqua. Ci facciamo grandi in Europa proclamando che una nostra ragazza ha isolato il virus e quella è una persona che lavora per tutti noi a 1500 euro al mese. Le persone andrebbero ricordate sempre, non solo durante le emergenze».

Come vengono gestiti all’interno dell’ospedale i pazienti affetti da Coronavirus?  

«Purtroppo si crea una sorta, passami il termine, di ghettizzazione. Le persone muoiono lontane dai loro cari e questa è un altro effetto subdolo del virus. Si porta via i pazienti da soli. E io mi sento privilegiato a poter essere lì in quel momento. Normalmente potremmo stringergli la mano, fargli una carezza, ora nemmeno quello. La cosa bella è che iniziamo a comunicare con gli occhi, ci diciamo tutto con uno sguardo. È straziante, ma è il nostro lavoro».

E sui tamponi come la pensi? Pensi sia importante farli a tutti?

«Assolutamente sì e a maggior ragione a tutti gli operatori sanitari. Io penso che adesso il problema del tampone sia quello dei falsi negativi. È una procedura nuova anche per noi operatori sanitari. Ci possono essere degli errori procedurali. Ma aggiungerei che la vera letalità del Coronavirus è che si nasconde. L’unica cosa che fa diagnosi è un esame di secondo livello. Questo virus sviluppa una polmonite interstiziale bilaterale, che da un quadro di ARDS, che è una sindrome respiratoria acuta molto grave. Le difficoltà respiratorie impongono un presidio di ventilazione dei pazienti a pressione positiva, erogata appunto dai ventilatori.

Ventilatori di cui abbiamo sentito parlare molto in questi giorni, così come si è discusso a lungo delle mascherine. Come eravamo messi in Italia e come lo siamo tutt’ora, a livello di strumentazione?

«Un’ emergenza del genere in ogni caso ti trova sprovvisto. Non siamo arrivati preparati e ci stiamo preparando in corso d’opera. Poi se ci aggiungiamo i tagli che sono stati fatti in passato alla Sanità e la mancanza dei concorsi pubblici che limitano le assunzioni… A Roma per anni non hanno indetto un concorso. Rimpiazzare chi va in pensione e rafforzare il personale così è complicato. Ma anche se fossimo stati in una situazione idilliaca, non dimentichiamo che stiamo combattendo una pandemia, una vera e propria guerra». 

E a livello strutturale l’ospedale che cambiamenti ha attuato?

«Si sta cercando di creare dei percorsi obbligati, per far sì che la struttura si sporchi in base al percorso che una persona fa, che non può essere fatto a ritroso. Inoltre si riorganizzano spazi e dispostivi medici per garantire il trattamento di pazienti con criticità importanti.

Cosa ne pensi della sperimentazione di farmaci come l’Avigan?

«Sono stati fatti studi, tante prove e molte altre se ne faranno. Io favorevole alla sperimentazione. Si è provato con il farmaco contro l’artrite reumatoide, il Tocilizumab. Essendo quella un’infiammazione, come la polmonite, ci sono stati riscontri positivi. In Italia le fasi di sperimentazione di un medicinale possono durare anche diversi anni. Ma ora non abbiamo tempo da perdere. In Giappone, dove non stanno prendendo misure stringenti come le nostre, pare che l’Avigan stia dando risultati. Evidentemente qualche efficacia può averla. La speranza è che si trovi un farmaco, che è l’unica barriera certa. Solo disattivando il virus non avremo più problemi».

Molti neolaureati, vista l’emergenza, sono stati chiamati subito in soccorso…

«Su questo sono molto d’accordo. Sicuramente sono inesperti, come lo ero io quando ho iniziato quattro anni fa a lavorare. Ma sono ragazzi svegli, determinati e noi dobbiamo sfruttare le loro qualità e dargli i mezzi necessari. Non vanno screditati, anzi. Penso anche a tutti i tirocinanti, che aiutano, eccome se aiutano. Sono una forza lavoro giovane, e si muovono spinti dalla passione. E sono persone che tornano a casa senza aver bisogno di nessuna medaglia».

Un’ emergenza come questa segna un punto di svolta storico. Potremo quasi parlare di un prima e di un dopo coronavirus. Qual è la tua prospettiva del dopo?

«Nella socialità e nel contatto umano qualcosa siamo andati sicuramente a perdere. Non puoi descrivere un abbraccio o un bacio e non immagino come si viva senza. Ma al tempo stesso questa storia ci richiama a un discorso di norme igieniche che è importante conservare. Le precauzioni riducono i batteri. Abbiamo capito che scene come quelle di discoteche o eventi super affollati, in questo momento, non possiamo proprio permettercele. Il ritorno alla normalità ci sarà, ma sarà graduale. Io sogno di poter dare un abbraccio».

La musica, e quella passione per il blues, uno dei tuoi grandi amori. Hai dovuto accantonarla in questo periodo?

«Assolutamente no. Tramite il blues io racconto quello che vivo giornalmente, le mie esperienze di vita, che io chiamo le storie. Le storie delle persone che aiuto. Con il lavoro che faccio entro in contatto con coloro che hanno bisogno, e che quindi tendono a essere egoiste, a tirarti in qualche modo verso di loro. Ma c’è un ritorno: ti raccontano la loro storia. Tu sei lì, ascolti e poi magari quel paziente non lo vedrai più. Ecco, quelle storie influenzano tutto quello che faccio e il blues è la forma più adatta a me per poterle raccontare. Ognuno ha la sua chiave di lettura, questa è la mia. È istintività».

 

 

 

 

Nicolo Rubeis

Giornalista praticante con una forte passione per la politica, soprattutto se estera, per lo sport e per l'innovazione. Le sfide che attendono la nostra professione sono ardue ma la grande rivoluzione digitale ci impone riflessioni più ampie. Senza mai perdere di vista la qualità della scrittura e delle fonti.

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