L’LSD è un bambino difficile, il mio bambino difficile. Così Albert Hofmann, il chimico svizzero che nel 1938 la sintetizzò per la prima volta, descriveva il dietilamide dell’acido lisergico. Ora però questo bambino, diventato ormai adulto, pare si sia “responsabilizzato” grazie a un’equipe italo-canadese che ha scoperto come l’LSD possa essere utilizzato per curare stati di forte ansia. Lo studio, condotto alla McGill University di Montreal con la collaborazione di ricercatori dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano e dell’Università di Padova, analizza i singoli meccanismi neurobiologici attraverso i quali l’LSD può aiutare a combattere i disturbi ansiolitici.
Allucinogeni e medicina, un rapporto nato oltre 70 anni fa
Quello dell’LSD, così come molte altre sostanze psicotrope utilizzate a fini terapeutici, è un percorso iniziato già a partire dagli anni ’50. L’acido lisergico, infatti, veniva studiato nel dettaglio per curare ansia, depressione, ma anche alcolismo, il tutto con risultati promettenti. Il rovescio della medaglia erano, e sono, i suoi effetti psichedelici se assunto in grande quantità: l’uso massiccio di LSD era all’ordine del giorno nella cultura hippie e in raduni come Woodstock, con la società che non poteva accettare l’idea che una droga associata a giovani che ballavano completamente nudi in preda a sogni psichedelici potesse entrare nell’uso quotidiano. Fu così che nel 1967 l’uso e la produzione di LSD per scopi tanto scientifici quanto personali venne bandito prima negli USA e, subito dopo, nella quasi totalità dei paesi del mondo. Dopo circa trent’anni di quello che potremmo definire anonimato scientifico, negli ultimi decenni la necessità di sviluppare nuovi farmaci per curare disturbi mentali si è fatta crescente. Negli ultimi anni si sta vivendo una sorta di Rinascimento Psichedelico, con la scienza che è tornata a interessarsi prepotentemente a queste sostanze sia dal punto di vista terapeutico sia per conoscere il funzionamento di varie regioni del cervello. Non a caso, negli Stati Uniti la Food and Drug Administration, l’ente governativo che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha approvato l’utilizzo dell’esketamina (derivato della ketamina) per la cura di depressione con istinti suicidari, mentre in Svizzera e Gran Bretagna la psilocibina (principio attivo dei funghi allucinogeni, simile all’LSD) viene usata da gruppi di ricerca come strumento per studiare la mappatura del cervello.
Come l’LSD regola i livelli di serotonina e crea le spine dendritiche
Con questo studio preliminare effettuato su topolini l’LSD, o eventualmente un suo derivato, potrebbe rivelarsi un validissimo alleato contro l’ansia patologica.
Un disturbo definito democratico in quanto colpisce tutte le età e che, nella sua versione patologica, ha un impatto simile alla depressione e porta a comportamenti come evitare il mondo circostante per la continua paura oltre a un aumento della tachicardia. A spiegare lo studio, che poggia le basi sul microdosing, è Danilo De Gregorio, ricercatore dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano nonché primo autore: «Diversi studi clinici hanno evidenziato che utilizzando basse dosi, che non provocano disturbi, è possibile potenzialmente curare alcune patologie. Per micro dose si intende una dose che equivale all’1% della dose farmacologica in grado di indurre allucinazioni». I ricercatori, dopo aver stressato gli animali per 15 giorni, seguendo i protocolli di rispetto e salvaguardia degli stessi, hanno somministrato per sette giorni basse dosi di LSD per poi sottoporre i topolini a test comportamentali per verificare il comportamento ansioso.
«Gli animali stressati che non avevano avuto l’LSD dimostravano un comportamento ansioso, mentre gli altri non avevano questo fenotipo.
Andando nel dettaglio, attraverso uno studio di neurofisiologia, abbiamo monitorato l’attività neuronale della serotonina in una particolare area del cervello, il nucleo dorsale del rafe. Abbiamo visto che gli animali stressati avevano una diminuita attività dei neuroni della serotonina, ma l’LSD era in grado di controbilanciare questa ridotta attività riportandola a livelli basali. Da qui – prosegue De Gregorio – abbiamo capito che un potenziale meccanismo tramite il quale LSD può prevenire lo sviluppo di un fenotipo ansioso è attraverso la modulazione della neurotrasmissione serotoninergica». Dunque, la chiave di volta è la serotonina, anche nota come “ormone del buonumore”, e facendo un parallelismo sportivo potremmo definire l’LSD come un attaccante che conduce la serotonina, quindi la palla, contro la difesa rappresentata dallo stato ansioso. Se LSD, che agisce come un comunissimo antidepressivo Ssri, riesce a superare la difesa e segnare, riportando la serotonina a livelli fisiologici, ha raggiunto il suo scopo.
Ma non è il solo risultato evidenziato dallo studio. Infatti, si è visto come l’LSD aiuti la creazione delle spine dendritiche, ovvero i rami dei neuroni attraverso i quali avviene la trasmissione del segnale elettrico alle cellule nervose. De Gregorio fa chiarezza anche su questo aspetto: «Le spine dendritiche sono come le spine di una rosa, sono dei bottoni mediante i quali i neuroni trasferiscono informazioni. Presupponiamo che il meccanismo sia dovuto all’attivazione di alcuni fattori neurotrofici di alcune molecole che contribuiscono a quello che è il trofismo, ovvero il nutrimento, di alcuni neuroni responsabili di questo aumento di spine dendritiche. Sarà uno dei prossimi step da capire nelle prossime ricerche».
Dai topolini agli umani, un passo necessario ma non semplice
Sebbene con altre sostanze come la psilocibina gli studi sull’uomo siano già in corso, con l’LSD occorre cautela, da leggersi come la necessità di fare altre ricerche. Prima di poter vedere i primi trial clinici su volontari sani, occorre far luce su alcuni punti oscuri riguardo il funzionamento dell’LSD sul nostro cervello. A riguardo, De Gregorio precisa: «Dal nostro studio effettuato sui roditori sappiamo che l’LSD previene lo sviluppo del fenotipo ansiolitico 24 ore dopo l’ultima somministrazione, ma non sappiamo poi per quanto tempo può durare. Poi c’è da capire se si può avere lo stesso effetto utilizzando dosi più alte ma per meno giorni. Inoltre, fondamentale, va ricordato che l’LSD da un punto di vista chimico è definita come “molecola sporca”, ovvero agisce con diversi recettori e quindi evitare che interferisca con ambiti al di fuori di quelli voluti. Ultimo, ma non meno importante, dobbiamo capire da un punto di vista genetico se l’LSD è in grado di modulare la trascrizione di alcuni geni. D’altronde non si vuole promuovere per forza l’uso di LSD perché si tratta di una sostanza che va somministrata in un setting controllatissimo».
Sebbene nello studio non sia stata dimostrata una effettiva tossicità dell’LSD con le basse dosi somministrate, De Gregorio spiega che il team di ricerca ha riscontrato effetti collaterali quando la dose è stata aumentata: «Abbiamo visto che gli animali aumentavano quella che è la locomozione. Quando un animale veniva messo dentro un’arena di forma quadrata dove poteva esplorare tranquillamente, noi attraverso videocamere e software abbiamo calcolato la distanza percorsa e ad alte dosi l’animale presentava significativi valori di locomozione. Inoltre, aveva un aumento di quelle che sono le cosiddette stereotipie psichiatriche. Ad esempio, il grooming quante volte l’animale si fa la toeletta, era diventato nell’arco di dieci minuti un atteggiamento simil-compulsivo».
Bisogna superare anche i pregiudizi
I problemi da superare però non riguardano solamente elementi di natura farmacologica e scientifica. Uno scoglio da tenere presente è quello rappresentato dai pregiudizi dell’opinione pubblica riguardo a questo tipo di farmaci che sono, o derivano, da sostanze psichedeliche. Sono passati più di cinquant’anni dalla messa al bando dell’LSD dati gli eccessi della comunità hippie e non solo, ma l’idea più largamente diffusa è che queste sono solo droghe, indipendentemente dal fatto che il principio attivo che si vuole cercare di avere è lo stesso dei più comuni antidepressivi già largamente usati. In più, va ricordato che la necessità di trovare altre vie per la cura di malattie psichiatriche come l’ansia è crescente perché molti farmaci già in commercio possono creare dipendenze a lungo termine e molti pazienti non rispondono alle terapie. Dovendo fare una previsione futuristica, riguardo proprio all’abbattimento dei vari pregiudizi, De Gregorio è fiducioso: «Pian piano le barriere si stanno abbattendo. Ci vuole tempo, ma sono fiducioso. Magari queste molecole non entreranno in clinica come potenziali farmaci, ma magari lo farà una molecola sintetizzata in laboratorio che deriva da questa. In Italia bisogna ancora inquadrare al meglio le cose dal punto di vista burocratico, dovremmo aspettare ancora qualche anno e poi spero che ci saranno i primi trial clinici su volontari sani». Occorrerà ancora qualche anno prima di uscire dalla fase rinascimentale per entrare nell’età moderna della medicina associata agli psichedelici, ma i primi grandi passi sono già stati fatti e si può guardare al futuro senza paura, o meglio senza essere ansiosi.